THE BUDDHA OF SUBURBIA di David Bowie. Viaggio in un mancato classico musicale
Introduzione
“Arrancando sotto il cielo grigio di Londra, dandomi in pasto menzogne e fantasie.
I miei pensieri e le mie azioni vengono soffocate da un mondo irriconoscibile e irriconoscente, che mi si rivela con il tempo sempre più concretamente insignificante.
In una società che lascia spazio a dei margini; in un luogo dove tutto è irrisorio e insipido è facile lasciarsi annegare nell’abisso, ma io non lascerò che questa “vita di periferia” mi metta in ginocchio: nonostante tutti i miei vizi, sono pronto a scordarmi per sempre di questo cielo piangente e di questi tetti freddi e cupi. Sono pronto, ma la realtà è che non posso ancora spiccare il volo.
È una prigione, una maledizione che ci costringe a sprofondare: non mi rimane nient’altro da fare che attendere una liberazione. La mia speranza è la mia forza. Non mi stancherò mai di sognare, e per questo non invecchierò mai…”
Siamo nell’anno 1993. Con queste parole ci viene introdotto The Buddha Of Suburbia, album che nasce come colonna sonora dell’omonima serie televisiva, basata a sua volta su un racconto dello scrittore britannico Hanif Kureishi. Fu proprio quest’ultimo a chiedere al suo amico David di produrre del nuovo materiale a sostegno del suo progetto. Bowie accettò all’istante, e lo fece con grande piacere, come ci racconta lui stesso nell’opuscolo inserito nella copertina del CD: “Ecco a voi uno dei progetti più piacevoli e appaganti ai quali io abbia mai messo mano”.
Nonostante i sentimenti nutriti da David nei confronti del suo lavoro, quest’ultimo ebbe un destino travagliato, soprattutto a causa della sua classificazione come colonna sonora e della copertina, originariamente anonima e difficilmente ricollegabile allo stile del cantautore. Tutto questo aveva contribuito a rendere l’album un vero e proprio fantasma all’interno della discografia di Bowie, fatto che a lui dispiacque non poco, dal momento che si sentiva molto vicino a quel progetto e ai personaggi che questo presentava: un tempo, anch’egli era stato giovane e inesperto, anch’egli aveva vissuto nella periferia di Londra e anch’egli si era sentito molte volte fuori luogo, invisibile ed escluso dal mondo che lo circondava. Non a caso, i testi e la musica che Bowie espone in The Buddha Of Suburbia sembrano attingere la propria linfa direttamente dai ricordi di gioventù del cantante, il quale pare così riguardare al se stesso del passato con amore e istinto paterno, descrivendo la vita selvaggia e ribelle dell’adolescente che fu, le sue idee e i suoi pensieri, il tutto però contornato da un’aura di saggezza, frutto dell’età.
Seppure per meno di un’ora (la durata del disco è di circa 55 minuti), lo spirito di quel ragazzo sembra così risvegliarsi e rivivere nella voce e nel corpo di Bowie, il quale ora possiede inevitabilmente le fattezze di un adulto.
L’album:
Tracklist:
01- The Buddha Of Suburbia
02- Sex And The Church
03- South Horizon
04- The Mysteries
05- Bleed Like A Craze, Dad
06- Strangers When We Meet
07- Dead Against It
08- Untitled No°1
09- Ian Fish, U.K. Heir
10- The Buddha Of Suburbia
“Tutto ciò che cerco, tutto ciò che desidero sono i piaceri della carne e la libertà dello spirito”
La musica comincia a parlarci, e lo fa proiettando l’ascoltatore in una dimensione al contempo superficiale, profonda e incolore (dove sembrano alternarsi solamente il bianco e il nero), dominata e radicata in una sorta di simmetria, spoglia ma essenziale. La prima cosa che questo “vecchio ragazzo” sembra volerci esporre sono infatti le fondamenta del suo stesso pensiero, incrollabili e insostituibili (“Sex And The Church”). Questa è di fatto la radice sulla quale si articola la sua personale visione della realtà che lo circonda, evidentemente primordiale e priva di qualsiasi barlume di sentimento. Nulla di ciò che espone sembra destinato a crollare nella sua mente, bensì tutto sembra per natura prossimo ad essere sepolto da nuove sensazioni, frutto di cambiamenti che stanno per presentarsi. Basta infatti un semplice sguardo rivolto all’orizzonte (“South Horizon”), per indurre nel protagonista il desiderio di evadere dalla sua dimensione, di crescere, di vedere il mondo: presto tutto questo diviene una vera necessità per lui, lui che al momento si sente però prigioniero e non può fare altro che aggrapparsi ai sogni, intraprendendo lunghi viaggi attraverso la sua mente, con destinazione luoghi lontani e irraggiungibili (“The Mysteries”)…
“Seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete, fredda e dura alle mie spalle. Lo sguardo vaga pigramente da un capo all’altro della stanza, fissandosi su dettagli irrilevanti. Tutto perde interesse, tutto perde utilità.
Il tempo scorre lento, le ore si trascinano. Nemmeno la musica può essermi d’aiuto: il silenzio della stanza sembra sovrastarla. Il fievole battito del mio cuore mi rimbomba nella testa, tenendomi compagnia. Di tanto in tanto i miei occhi fissano il cielo, oltre il sottile vetro della finestra. Ad un tratto poi, percepisco in lontananza il rombo sordo di un aereo: con quel sottofondo che mi rimbomba nella testa, chiudo gli occhi e mi lascio trasportare con dolcezza. Silenziosamente, la mia mente smuove le ali e, lentamente, prende il volo.
Ora riesco a vedere le montagne, i boschi, i pascoli, i ruscelli, le cime rocciose… Paesaggi creati per essere vissuti. Vorrei andare via da questa casa. Vorrei vedere le montagne e respirare l’aria fresca del bosco. Vorrei camminare su un letto di foglie e vedere le cime oltre le punte degli alberi, illuminate dagli ultimi raggi del tramonto. Vorrei sentire l’acqua del ruscello scorrere tra le rocce ricoperte di soffice muschio e vorrei immergere la mano nella sua fredda, limpida linfa…
Ad un tratto però la mente si posa, e mi ritrovo nuovamente nella stanza, più buia di prima: il sole fuori è tramontato. Il pomeriggio è trascorso, oggi come ieri e come domani. Questa è la mia vita. Tutto ciò che vivo, tutto ciò che ho è solo un sogno”
Quando il desiderio però si fa insopportabile, esso si tramuta in una fiamma inestinguibile e vorace, che rapidamente divora l’essenza delle cose, giungendo incontrastata fino alle ossa.
“Il mondo è là fuori, la vita anche”
Ora nasce nel protagonista un inevitabile sentimento di ribellione che lava via l’innocenza e lo catapulta al di fuori della sua misera stanza, tra le strade di un quartiere malfamato di Londra. Giunge il tempo di un nuovo capitolo, dal titolo “Bleed Like A Craze, Dad”.
“Profili abbaglianti, avvolti dalla luce, distinguibili per natura. Il loro incantesimo ha penetrato forzatamente i miei pensieri, passando attraverso i miei occhi innocenti e inesperti. Mi sono lasciato travolgere dall’inganno delle apparenze, e così ho liberamente fantasticato su chi sarei potuto diventare.
Una parte del tutto era però rimasta celata al mio sguardo: un copioso flusso di sangue, ininterrotto e a tratti abbondante, invisibile ma fin troppo presente.
Allora ho riflettuto: l’uomo è sempre stato attratto e respinto dalle diversità. Ricordate? Alcuni adorarono e seguirono l’alieno, ma altri decisero di crocifiggerlo. Queste strade mi hanno impartito una lezione: nulla viene con facilità, e ciò che viene bisogna restituirlo. Siamo dei morti che camminano, e credo che dopotutto non ci sia molto spazio nemmeno per i sogni in questa periferia”
Il giovane Bowie abbraccia la realtà, e con essa nuovi insegnamenti, nuovi strati che si andranno a depositare sulle fondamenta del suo pensiero, a volte logorandolo e altre rinforzandolo.
Tutto accade rapidamente: le correnti trasportano il protagonista nel vortice delle sensazioni, della vita. Egli conosce il sentimento, un amore che però non era come se lo immaginava. L’eccessiva fretta e la sua insaziabile sete di vita lo conducono più volte fuori strada.
“Un’alba blanda e sciolta, i cui raggi illuminano con freddezza un mondo che è già morto” (“Strangers When We Meet”)
Le correnti del destino, inizialmente impetuose, ora sembrano rallentare fino a ristagnare. L’odore di marcio si fa insopportabile, di nuovo. Delusione e malinconia si mescolano, rendendo l’acqua sempre più torbida, conducendo nella mente del protagonista un desiderio di purezza, di amore limpido e benefico che egli a questo punto non potrà mai tastare con mano: in un battito di ciglia è già giunto il tempo dei rimpianti.
Ora si apre dinanzi all’ascoltatore un abisso di note, sospiri, parole. Un lenzuolo leggero, teso e fragile che sembra sforzarsi di celare il crepaccio sottostante, finendo prevedibilmente per spezzarsi. Un velo composto da una moltitudine di immagini inafferrabili e sconnesse, come fantasie o ricordi, che scorrono con delicatezza nella mente senza però lasciarvi nulla all’interno. Tutto scivola via. Non c’è nessun titolo (“Untitled No°1“), nessun nome per questo contenitore apparentemente ricolmo di emozioni, ma talmente leggero e trasparente da poter quasi dissolversi nell’aria… E quando questo succede, all’improvviso, tutto crolla. Ogni cosa precipita, per poi scontrarsi con la concretezza del silenzio. Un silenzio ricco di significato, al quale viene affibbiato addirittura un titolo.
“Me ne sto sdraiato sulla sabbia, ancora tiepida nonostante il sole abbia abbandonato questo mare calmo e ondulato già da qualche ora. La brezza del deserto mi accarezza la pelle e mi coccola. Sopra di me, proprio davanti ai miei occhi, si staglia l’eterna meraviglia di un cielo stellato, nel quale la mia mente sembra annegare dolcemente.
Sono sicuro che ci sia un piccolo posto anche per me in questa sconfinata immensità”
“Ian Fish, U.K. Heir“: un abisso impenetrabile, un oblio che permette alla Musica di riconquistare passo dopo passo la propria anima smarrita, riconducendola così alle origini del tutto, come l’acqua che dalle montagne torna al mare e viceversa.
“L’energia scorre intorno a noi, facendo sì che tutto possa accadere. Nel mentre, l’eterno presente si trascina continuamente verso nuovi orizzonti.
Affiora la memoria, e con essa vaghi brandelli di alcune melodie del passato: sono segni dell’arte che si contrappongono alla crudeltà del tempo, un oscuro abisso nel quale il tutto sprofonda e diviene parte di una sola ombra.
Il caos immortale precipita così in questa sottile e fragile armonia, la quale sembra ricondurre ogni uomo alla propria casa. Eppure, oltre le spesse mura invisibili che ci proteggono non c’è pace per noi uomini: oltre la meraviglia tutto si disperde, tutto converge irrimediabilmente al silenzio, volto della verità, estraneo alla vita”
È giunto il momento per il protagonista di non guardare più all’orizzonte, bensì di voltarsi e ammirare ciò che è stato. Ed è proprio qui che l’album decide di incastonare il suo ultimo tassello: un’ultima, grandiosa esplosione sonora, in grado di rispolverare emozioni ormai trascorse e di inondare sapientemente queste ultime con nuova energia.
“Never bored, so I’ll never get old…”
Si sancisce così la perfetta chiusura di un cerchio, nonché la conclusione di un lavoro che potrebbe fungere da colonna sonora per la vita di molti.
Michele Santospirito
pubblicato in collaborazione con emergogiornale.it