SONO SOLO NELLA STANZA ACCANTO: il peso delle parole
“Che palle la solita lezioncina sul bullismo!” Potrebbe sembrare brutto o cattivo, ma questo è stato quello che ho pensato quando, qualche giorno prima dello spettacolo, è venuto uno degli attori a parlarne e a presentarlo alla classe.
Effettivamente letto così è brutto e cattivo, ma non ho torto. Nel corso degli anni scolastici, di lezioni e laboratori su bullismo, cyberbullismo e tutto quello che li riguarda se ne fanno a quintalate, ma è difficile che qualcuno di questi riesca veramente a trasmetterti qualcosa, oltre all’insegnamento contrariamente sempre presente.
C’è differenza tra i vari modi possibili di far passare un concetto.
Lo spettacolo a cui abbiamo assistito, per esempio, dal mio punto di vista è il miglior metodo. Rappresentare qualcosa di così travolgente, qualcosa che ci porta a pensare. Perché alla fine, ciò che abbiamo visto, è davvero successo.
E qui si inizia a riflettere.
Il 17 febbraio siamo andati a vedere uno spettacolo a Milano al Teatro dell’Elfo: “Sono solo nella stanza accanto”, della compagnia Eco di fondo, per la regia di Giacomo Ferraù e la drammaturgia di Tobia Rossi. Con una semplice ma efficace scenografia, i due bravissimi attori, Edoardo Barbone ed Eugenio Fea, hanno riportato e adattato la storia vera di Michele Ruffino. Un semplice ragazzo come me, come noi, che dopo ripetuti atti di bullismo ha deciso di togliersi la vita nel febbraio 2018.
Sì, sembra una cosa forte, ma da qui al riuscire a provare delle vere emozioni grazie a una messa in scena ce ne corre… Messa in scena che non nomina mai il nome di Michele e nemmeno la sua storia, ma ci gira intorno, attraverso un racconto inventato riguardante due ragazzi, in due camere diverse, con i propri problemi e le proprie personalità che si ritrovano a giocare allo stesso gioco.
Entrambi non sanno chi ci sia dall’altra parte dello schermo, ma dopo l’improvvisa scomparsa del loro terzo giocatore iniziano ad aprirsi e confidarsi le loro emozioni e i loro segreti più profondi. E’ normale che tra amici si scherzi, e questo è quello che fa uno dei due ragazzi con l’altro, forse per non esternare il suo essere a disagio in carrozzina. Anche lo stesso ragazzo scherza con se stesso e le parole dette dall’altro giocatore, ma nel profondo è parecchio ferito, probabilmente perché anche a scuola gli vengono dette quelle cose, ma in modo più volgare e con anche degli atti di violenza: la definizione di bullismo.
Lui non si rende conto in un primo momento che quella realtà lo sta distruggendo, provocandogli attacchi di panico. Tuttavia, dopo un confronto con l’altro giocatore capisce che i gesti e le parole contro di lui non sono belli e che non dovrebbero essere fatti o dette, così ricorda che anche lui non era stato molto carino con il terzo giocatore sparito da giorni. Magari il fatto che quel ragazzo dalla risata strana si fosse aperto e avesse rilevato le sue debolezze nella vita al di fuori del virtuale con lui, suscitò in qualche modo un senso di fiducia nell’altro e decise di raccontare anch’egli ciò che gli era capitato e ciò che prima per lui era un sogno, un arrivo, ora è soltanto un incubo, la fine.
Nel mezzo delle loro conversazioni e nel loro cercare di finire quel dannato gioco spuntava molto spesso l’argomento “Blue”, il terzo giocatore scomparso ormai da troppi giorni. Ciascuno provò a ricercarlo mandando dei messaggi. Ma niente, ancora nessuna notizia. Sembrava scomparso nel nulla da un giorno all’altro e nessuno dei due voleva credere che quello che dicevano i giornali fosse riferito a lui: “Ragazzo appassionato di videogiochi si suicida gettandosi da un ponte”.
Il ragazzo che aveva in qualche modo fatto soffrire Blue, anche se inconsapevolmente, iniziò a farsi mille paranoie, coinvolgendo tutto il suo passato e presente nel mondo esterno, incolpandosi di aver indotto qualcuno al suicidio. Questo lo portò a delirare e a convincersi di fare lo stesso: uccidere chi l’aveva tormentato per anni e anni.
Su quel colle con una pistola in mano, pronto a piantare dei colpi nelle teste dei suoi bulli. Forse il pagliaccio che voleva far ridere gli altri per non esternare la sua sofferenza, immessa da altri pagliacci, rideva di sé, una risata aspra, piena di dolore, e di chi era stato vittima, ma anche bullo.
Pur avendo assistito a un’ora e mezza di pura trepidazione, la parte che più mi ha fatto emozionare è stata quando, alla fine dello spettacolo e completamente fuori da esso, una ragazza che oggi lavora nel campo del cyberbullismo ci ha raccontato la sua storia da vittima di bulli.
Mi ha colpito.
Non tanto per cosa le capitava quando appunto veniva bullizzata, che comunque sono cose orribili e spregevoli, ma per come è lei oggi.
Per come lei si è rialzata, più volte, senza mai scappare, senza mai mollare, e per come ha saputo raccontare un qualcosa di così personale e toccante dimostrando una forza immensa.
È stata la dimostrazione di cosa significa: “avercela fatta”.
È stata, è e sarà un esempio da seguire e un punto di paragone e arrivo per tutte le vittime che ci sono ancora oggi.
Nel complesso ho fatto varie riflessioni a partire da quel giorno grazie alle parole dette dalla ragazza, alle parole dette dagli autori, al senso e ai dialoghi dello spettacolo.
Non so esattamente se abbiano portato a qualcosa di concreto o meno, magari hanno agito anche su certi miei atteggiamenti che, senza accorgermene, possono portare a offendere un’altra persona.
Ma so che qualcosa nella mia mentalità è cambiata, in meglio certamente, e spero che questo qualcosa sia cambiato anche nella mente di tutti gli altri miei coetanei.
Spero che l’importante evento a cui abbiamo assistito, sia servito e serva per molti di noi a elaborare qualcosa di rilevante.
Viola Sanvito, Eulalia Frezza