Memorial FAHRENHEIT 451
Dal capolavoro di Ray Bradbury, immaginando di essere il protagonista, Guy Montag, e con lui aprire occhi, cuore e mente per tenere viva la fiamma della memoria e della Storia umana, nella consapevolezza che “senza di essa la vita è violenza, e tutto è perduto”.
Sono passati 10 anni. Prima dell’inizio della fine del vecchio mondo ero un incendiario, addetto all’incenerimento di ogni libro clandestino non approvato dal governo federale.
Era una gioia appiccare il fuoco, ammirare con orgoglio quella creatura divampante in tutto il suo splendore e godere delle sua opera di purificazione. Operavamo quasi sempre di notte e non portavamo mai i libri fuori dalle case per bruciarli: non mi è stato mai chiaro il motivo, prima non mi ponevo nemmeno la domanda. Poi capii che lo facevamo per dare risalto alle fiamme: tutti i cittadini nelle circostanze dovevano avere un posto in prima fila.
Nelle nostre finte vite il nostro lavoro era gratificante, era parte di noi, l’odore del cherosene intrinseco alla pelle come quel lieve, imperterrito strato di fuliggine sul volto.
Il resto della nostra esistenza era limitata all’essere occupati, costantemente, ovunque; bombardati da slogan pubblicitari, show televisivi interattivi, notizie ridotte a titoli e riassunti e la costante pressione dell’imminente guerra nucleare. Prendersi un momento di riflessione non era ammesso, ogni possibile occasione per pensare cancellata. Leggi proibizionistiche. Mancanza di argomenti su cui discutere e, soprattutto, mancanza dell’ingrediente essenziale: una persona in grado di sostenere un certo dialogo. Se l’inferno è l’assenza della ragione, io ero nella sua parte più profonda.
Un giorno incontrai una ragazza, si chiamava Clarisse. Fu lei a farmi prendere consapevolezza dell’ottusa tristezza in cui ero immerso. C’era in lei un qualcosa che ancora oggi non riesco a cogliere del tutto, un distacco dalla realtà quasi impercettibile che, una volta notato, era difficile togliersi dalla mente. Un dono della morte, però. Solo in seguito venni a sapere che Beatty, il mio capitano, era stato uno dei responsabili della sua scomparsa.
In seguito conobbi un uomo, un vecchio professore di nome Faber. Fu come trovare una rosa nel deserto. Con lui parlai molto; letteratura, poesia, storia, gli chiesi tante cose sul passato, su come si viveva un tempo, cosa ci manca oggi. Mi raccontò della fenice, una creatura dalla fiamma eterna, in grado di rinascere dalle proprie stessi ceneri e prolungare la sua esistenza all’infinito. Una capacità straordinaria, ma priva di un elemento essenziale: il ricordo. E così quella capacità divenne inutile. Ogni vita sempre come la prima, niente progresso, niente coscienza dei propri errori, nessuna visione prospettica. La vita di un uomo è esperienza e memoria, toglierle dalla mente è come uccidere.
Faber mi parlò anche di un gruppo di persone: scrittori, insegnanti, intellettuali nascosti fuori città, lungo una vecchia ferrovia abbandonata. Quella notte mi diressi lì, e li trovai. Erano uomini e donne, logorati dal tempo e dalle loro condizioni di vita, ma questo non faceva perder loro la speranza nella propria missione.
Erano la memoria del passato. Romanzi, poesie, biografie, testi sacri, un pozzo da cui attingere conoscenza per sopravvivere nel presente e sperare nel futuro. Acqua che estingue il fuoco degli uomini che temono le vie del progresso umano, abbandonati nelle bugie delle proprie cieche convinzioni.
Con loro impugnai il sacro dovere di preservare la memoria dell’uomo. Senza di essa la vita è violenza, e tutto è perduto.
Nel periodo in cui ero stato un incendiario, la verità sulla storia ci era negata. So, anzi sappiamo che qualcuno in futuro, magari già oggi, potrebbe tornare a ricalcare quelle scelte, potrebbe avere interesse a cancellare il passato, a estinguere la fiamma della memoria. Ricordate: il passato può essere manipolato, ofuscato o incenerito, ma il passato continuerà a vivere finché il nostro mondo sarà abitato dall’uomo e ci sarà qualcuno disposto a tenerne viva la fiamma.
Nicolò Scalesi