«INSEGNARE SIGNIFICA LASCIARE UN SEGNO» Intervista al prof. Melanio Cazzaniga
«Una delle cose più qualitative del nostro lavoro è la relazione. Se si sottrae alla relazione il piacere di stare insieme, c’è soltanto da incazzarsi». Il prof. Cazzaniga, riconosciuto e apprezzato per la sua umanità, oltre che professionalità, racconta il suo percorso professionale e regala preziosi consigli per migliorare la nostra esperienza scolastica, che è esperienza di scambio e di crescita. «Chi è il “miglior” insegnante? Il “miglior” insegnante è l’allievo migliore. L’allievo e l’insegnante stanno camminando tutti e due nella stessa direzione, non sono l’uno contro l’altro».
Professor Cazzaniga, perché ha deciso di fare l’insegnante?
Ho iniziato a insegnare matematica e disegno durante gli studi universitari in una scuola serale vicino a casa. Già da quel momento ho iniziato a nutrire interesse e soddisfazione per questa attività. Sentivo che grazie alla possibilità che offriva di instaurare relazioni questo lavoro soddisfaceva il mio desiderio professionale.
È felice di aver intrapreso un lavoro così legato ai giovani?
L’ho proprio desiderato. Infatti, l’ultimo anno di università insegnavo educazione tecnica alle medie inferiori a Lesmo, poi mi sono laureato e ho continuato il percorso di insegnamento. Non ho mai pensato di svolgere una libera professione. Mi piace questo nobile mestiere.
Qual è stato il percorso che l’ha formata come docente?
Per me è stato importante aver avuto molte esperienze scolastiche. Questo perché, avendo fatto diciannove anni di precariato, ogni anno cambiavo scuola e ciò ha contribuito nella mia formazione. I tempi erano anche quelli giusti, perché in quegli anni la scuola godeva di una sperimentazione di autonomia molto ampia. Si era a seguito dei movimenti del sessantotto, quindi c’era un fermento e una trasformazione sociale non indifferente. Anche la scuola è stata interessata da questi movimenti. Era come se gli insegnanti, i collegi docenti e gli istituti potessero inventare una scuola propria. Ad esempio, noi facevamo i libri a scuola, non si acquistavano. C’erano moltissimi laboratori e la manualità era molto forte. In alcune scuole c’era la sperimentazione musicale e venivano insegnanti del conservatorio. Oggi questo margine di libertà è piuttosto ridotto.
Secondo lei, in questi ultimi anni quali cambiamenti ha subito la scuola?
La scuola si è trasformata soprattutto sul piano quantitativo. Le prove, gli studi, gli esami e i vari test hanno condotto la scuola verso un apprendimento a breve termine, tanto è vero che se uno studente si prepara a un’interrogazione e per qualsiasi ragione questa viene rimandata di quindici giorni, lo studente non si ricorda più quello che ha studiato. Oppure se vai a vedere cosa ti ricordi di ciò che hai studiato l’anno scorso ti rendi conto che le nozioni apprese sono un po’ come foglie secche di un albero. È tutto molto legato all’immediatezza del sapere. Si parla molto di informazione, ma poco di formazione.
Qual è il messaggio che vorrebbe comunicare agli studenti con le sue lezioni?
Innanzitutto la parola insegnare significa “lasciare un segno”, quindi già nel nome è indicato un po’ quello che è il fine dell’insegnamento: l’insegnamento non è solo una trasmissione di conoscenze o di sapere, ma ancor prima la creazione di una relazione. È facile osservare che c’è una stretta proporzione tra la qualità della relazione e la trasmissione didattica. Ancora prima di una trasmissione didattica, l’insegnante accompagna gli allievi in un percorso di convivenza: un aspetto molto importante infatti è generare un clima di rispetto reciproco, lavorare sulla qualità del tempo vissuto. E tutto questo per un insegnante significa imparare qualche piccolo trucchetto, qualche strategia. Uno degli metodi principali è fingere di non fare scuola. Tutto quello che l’insegnante impone come obbligo crea nello studente un rifiuto, un rigetto: ci vuole da parte dell’insegnante l’abilità di evitare questa situazione e trasformare la scuola e la didattica in un gioco. Nella dimensione del gioco c’è un trasferimento di conoscenza.
La scuola può essere strumento per il raggiungimento della felicità?
Sì, e non solo una felicità futura. Un buon clima di classe è una cosa molto importante ed è possibile ottenerlo solo attenuando i ruoli di forza e di autorità. Ad esempio, io insegno in prima e seconda. Questo è un momento abbastanza difficile per un adolescente. Sono in uscita dall’ambito familiare e l’insegnante ha un ruolo di adulto significativo. Le persone adulte spesso raccontano di quell’insegnante che è riuscito a stimolarle. Guadagnarsi una fiducia reciproca è importante, ma purtroppo quello che manca nella scuola è un dialogo sulla vita: servirebbero dei gruppi di ascolto con l’obiettivo di cogliere il vissuto scolastico dello studente e anche degli insegnanti. L’alunno è al centro, ma ogni elemento deve concorrere alla positività della situazione. Se gli insegnanti, a causa della propria situazione, vivono un disagio scolastico, alla fine ne risente l’alunno.
Ha mai avuto un’esperienza diretta in cui un professore non fosse interessato a creare un rapporto positivo con gli studenti, ma con il passare degli anni, invece, è riuscito a cambiare il proprio atteggiamento?
Sì, mi è capitato di frequente perché, avendo delle ore di lavoro in compresenza, ho potuto condividere con altri insegnanti la stessa attività nelle stesse ore. Si lavorava quindi in due sulla stessa classe. Ho osservato le trasformazioni che questi insegnanti avevano nei confronti degli alunni. La convivenza e l’aver appreso da me altre modalità di relazione sono andati a cambiare il loro tipo di rapporto con i ragazzi sviluppando una maggiore gratificazione. Gli insegnanti possono cambiare se trovano e vengono a conoscenza di metodi alternativi. Per facilitare questo processo si devono fare delle esperienze diverse, delle esperienze nuove. Ad esempio, i corsi di aggiornamento dovrebbero servire a questo. Sempre che questi non si riducano a teorie universitarie poco pratiche espresse da un pedagogista che, magari, non ha mai avuto contatto con gli studenti.
Quale consiglio si sente di dare agli studenti per migliorare la loro esperienza scolastica?
Io consiglio agli studenti di parlare di più tra di loro. Mi è capitato, a seguito di qualche problema sorto in classe, di creare dei gruppi di ascolto. In questi casi, più della metà della classe non ha detto nulla. I ragazzi non sanno parlare tra di loro, non per colpa loro. Sono vittime di un’assenza di dialogo a livello sociale. Non c’è il racconto del proprio vissuto: ciò è un peccato. Ogni volta che vengono eseguiti questi tipi di circle time, i ragazzi sono contenti. Cambia il clima della relazione tra di loro e con gli insegnanti. Qualifica il vissuto scolastico e fa prendere coscienza.
Quindi secondo lei gli studenti tendono a non comunicare in modo autentico tra loro e con gli insegnanti?
Sì, e questo perché non l’hanno mai fatto. Non sono stati abituati a essere ascoltati dagli adulti. A volte il loro parlare è soltanto frutto di un interrogatorio familiare, non in un clima di parità. Se si tiene conto che uno degli aspetti fondamentali dell’adolescenza è il nascondimento e la bugia come autodifesa, si può ben capire che le parole di verità passano in secondo piano. Invece questa facoltà va liberata. Una buona cosa sarebbe introdurre nella settimana qualche ora di dialogo tra professori e studenti per fare il punto della situazione. I professori andrebbero visti come mediatori e non come elemento di oppressione. Una delle cose più qualitative del nostro lavoro è la relazione. Se si sottrae alla relazione il piacere di stare insieme, c’è soltanto da incazzarsi. La mentalità giusta dovrebbe essere quella secondo la quale è l’alunno a rincorrere l’insegnante: l’alunno deve essere abituato a vedere la scuola come un insieme di persone a cui poter fare delle domande e grazie a questo dialogo imparare a seguire un po’ la propria indole. Sono sì importanti i suggerimenti degli adulti, ma poi man mano che lo studente cresce nell’età e riconosce delle proprie attitudini dovrebbe seguire quelle.
Come può un adulto aiutare uno studente a conoscere se stesso e scoprire le proprie attitudini?
È come se l’alunno fosse una bellissima pianta di rose e gli adulti (genitori e insegnanti) dovessero favorire la sua crescita in modo naturale. Non possono obbligare il bocciolo a fiorire. Devono soltanto evitare la crescita di erbacce, controllare la presenza di acqua… Possono favorirne la crescita insomma, ma non sono loro il motore. E se si pongono come tale, si sovrappongono a delle strutture, generando confusione. Ad esempio, nelle scuole della Montessori (grande pedagogista dei primi del novecento), la materia preferita era la matematica. Nelle altre scuole invece era la materia meno gradita. Come mai? Perché lei la faceva manualmente, con dei giochi. Gli studenti non vedevano l’ora che arrivasse l’ora di matematica. Questo perché diventava un’attività ludica. Il bambino ha già una sua logica che bisogna coltivare. Non si deve sovrapporre un’altra logica che poi crea confusione.
Quanto è stato influenzato dalla filosofia orientale nella sua vita?
Molto, e in generale qualsiasi lettura, studio e approfondimento mi hanno influenzato. Il Pensiero è cibo dell’Anima. Per mia formazione personale sono stato molto attratto dalle pratiche orientali. Ho iniziato a fare yoga a ventidue anni. Questo è dipeso soprattutto da una sorta di rigetto verso un cattolicesimo un po’ bigotto da cui mi sentivo circondato. Sentivo un’esigenza di religiosità dentro di me e non volevo rinunciare del tutto a uno sviluppo di questa parte interiore. Quindi mi sono rivolto alle letture orientali che mi sono state molto utili. Ad esempio, nella cultura orientale il rapporto allievo-maestro è estremamente importante: ho potuto vedere nelle sue espressioni più luminose i grandi frutti che può dare questa relazione. È importante riconoscere come il maestro in questa cultura si metta sempre al di sotto dell’allievo e non sopra. Quindi chi è il “miglior” insegnante? Il “miglior” insegnante è l’allievo migliore. L’allievo e l’insegnante stanno camminando tutti e due nella stessa direzione, non sono l’uno contro l’altro.
Intervista a cura di Francesco Bramati, Niccolò Mandelli e Yuri Scalcinati