IL PIANETA SENZA NOME, un racconto di Nicolò Meloni
Due uomini all’inseguimento di una misteriosa belva spaziale che possiede la chiave per raggiungere il potere e la felicità. Un confronto fra due visioni solo apparentemente inconciliabili della vita alla ricerca di ciò che non ha nome.
La navicella tremò per un attimo. Carmin aprì un solo occhio per capire cosa stesse accadendo. Non sembrava essere successo niente, così lo richiuse e riprese a dormire.
Qualche minuto dopo si sentì la voce tonante e profonda di Gramb che lo chiamava. Urlava dando gas e facendo tremare la navicella per l’improvvisa accelerazione. A quel punto Carmin si alzò, si mise gli occhiali e sbadigliando si infilò nella sua tuta spaziale che lo copriva fino al collo, mandò giù con un solo boccone una barretta “full meal” e si diresse verso il centro di comando della navicella.
“Già di prima mattina si mette a sbraitare, Gramb!”, disse Carmin appena entrato nella stanza. Gramb lo ignorò e, ostinato a non perdere di vista quella misteriosa creatura, continuava ad accelerare.
A quel punto Carmin fece un sospiro e riprendendo fiato disse: “Senta, è inutile che continuiamo a inseguirla spingendo il motore al massimo, è da quattro giorni che le stiamo dietro e continua a seguire la solita traiettoria. Avrebbe più senso aspettarla di nuovo qui e agganciarla al prossimo passaggio”.
Poi, preoccupato guardò l’indicatore di carburante, arricciò la fronte facendo sobbalzare il suo ciuffo rossiccio e continuò: “Inoltre è solo uno spreco di carburante e la stazione di rifornimento è lontana”.
Gramb a quel punto mollò il volante e con aria delusa lasciò che la nave decelerasse gradualmente: “Lo so, ma non posso farci niente! Sta diventando un’ossessione logorante questa bestia! Facciamo di tutto per fermarla o cercare uno scontro, ma lei, come se niente fosse, ci passa davanti con la sua enorme mole e prosegue il suo cammino. La odio, la odio, la odio!” Sebbene non ne conoscesse la natura, quella creatura aveva qualcosa che lo attraeva intensamente e non trovava niente che lo avrebbe potuto saziare come portare a termine quella missione.
Dopo la sfuriata, Gramb si calmò e con tono pacato e arrendevole chiese a Carmin di portargli del whisky. Carmin ubbidì e gli porse su un vassoietto ciò che il suo capitano agognava di più in quel momento. Si sedettero entrambi sui loro comodi sedili e iniziarono ad aspettare fissando lo spazio infinito. Avrebbero aspettato fino al momento in cui la creatura si fosse fatta viva in quel punto. Passò una buona mezz’ora senza che nessuno rivolgesse la parola all’altro.
Gramb aveva lo sguardo spento, osservava il residuo alcolico rimasto sul fondo del bicchiere che nel frattempo faceva roteare lentamente con un movimento del polso. Con l’altra mano si massaggiava la barba, che amava tenere un po’ incolta, passandola poi tra i capelli, o almeno quello che restava della sua chioma che curava meticolosamente fin dalla sua gioventù.
Carmin, cercando di spezzare un po’ quell’atmosfera diventata fin troppo malinconica, disse a voce bassa: “Tra quanto dice che si farà vedere la creatura?” La domanda non ebbe risposta. Riprese a guardare lo spazio infinito.
Pensava alla sua ragazza che lo aspettava a casa fiduciosa del suo successo. Pensò a quanto era stato triste vederla piangere quando le aveva detto che gli era stata affidata la missione di recuperare la pietra del Mako, e che ci sarebbe stato il pericolo di perdere la vita, come era accaduto ad altri in missioni passate.
Osservava bene i movimenti del capitano. Nonostante gli attriti, lo vedeva come una guida, un modello da seguire. Guardava il suo corpo atletico nascosto dalla tuta, si soffermava spesso a guardare le sue braccia muscolose paragonandole alle proprie. Una domanda però, più che giustificata, lo mandava in confusione: che cos’era davvero la pietra del Mako? Titubante disse: “Capitano, cos’è la pietra del Mako? E cosa ce ne faremo una volta presa?”
Il capitano voltò la testa nella sua direzione e con aria sorpresa a sua volta chiese: “Cos’è che ti ha spinto a chiedermelo, Carmin?” Il co-pilota sospirò e, ancor prima che il suo cervello potesse formulare una risposta, il capitano iniziò: “Pare che quella pietra conferisca ricchezza, fama e la capacità di essere lodato e amato da tutti, qualsiasi sia la persona che ne entri in possesso. Lasciamelo dire: per quello che mi riguarda, roba da matti”.
Il co-pilota spirò un “Grazie” sincero. La sua mente era invasa dai pensieri e dalle domande: chi glielo aveva fatto fare di imbarcarsi in una spedizione in cui poteva perdere tutto ciò che aveva di più caro? Per cosa poi? Una stupida pietra che secondo alcuni poteva dare poteri incredibili ma sulla quale lui, come del resto chiunque altro, non aveva alcuna certezza. Cosa gliene importava? A lui bastava solo essere a casa con la sua amata e costruirsi una famiglia. Dopo un anno di ricerche e giorni di inseguimento, gli scappò una lacrima: piangeva. Piangeva e non se ne rendeva conto. Pian piano un nodo gli strinse la gola e una folle ma sensata idea gli balzò in mente: lasciare il suo posto di co-pilota e tornarsene a casa.
“R-Rinuncio!”, esclamò Carmin alzandosi rigidamente. “Non riesco a credere e a pensare che stiamo sprecando la nostra vita a caccia di questo mostro, nemico di tutti solo perché possiede quella dannata pietra. Cosa me ne frega! Che la cerchi chi la vuole, non mi interessa impossessarmi di un qualcosa che non so neanche cosa sia o se funzioni!” Nel frattempo si asciugava il viso col braccio destro stropicciando gli occhi con rabbia cieca.
Sembrava che il suo discorso non avesse sortito alcun effetto. Gramb pareva aver già perso ogni interesse. Continuava a guardare il suo bicchiere, poi, ingurgitatone il liquido restante, lo appoggiò sulla plancia.
Alzò il braccio indicando il cielo stellato: “Lo vedi quel corpo celeste?”
Carmin rivolse subito lo sguardo verso il punto che Gramb stava indicando. Non notò niente di strano, solo l’universo infinito.
“A cosa si riferisce, comandante?”, disse Carmin
“Oh dai, come fai a non notarlo!”, aggiunse Gramb con una grossa risata.
“Di cosa sta parlando?”, chiese scocciato dall’esclamazione del suo superiore.
“Di un oggetto che non sempre si vede a occhio nudo, ma che so che c’è. Un giorno forse anche tu lo vedrai, ma sappi che lì da qualche parte c’è un qualcosa che solo per te sarà davvero speciale e solo tu potrai farne tesoro.”
“Deve aver bevuto troppo comandante, è meglio che si riposi adesso e ripensi a ciò che le ho detto”, disse Carmin con fare a metà fra l’impaziente e l’ansioso.
“No, no, non sono ubriaco, sappi solo che…”, borbottò il capitano con fare superbo.
“Cosa?”, chiese Carmin tremante dalla curiosità e dal nervosismo.
“Che ciò che vedrai sarà una stella o un pianeta unico da cui si può prendere in prestito tutta l’energia che si vuole nei momenti più brutti”, concluse il capitano.
“Cioè? Si spieghi meglio?”, incalzò incuriosito il rosso.
Gramb si mise a ridere ancora aggiungendo: “L’ho guardato spesso, sai? Quando affrontavo nemici imbattibili o flotte aliene con la mia navicella. Mi rincuorava perché sapevo che attraverso quel corpo celeste tutti i miei cari mi davano la forza di continuare e andare avanti. Non sono mai stato solo e neanche tu lo sei. Ora calmati, che ho sonno e voglio dormire un po’”. Detto ciò si appoggiò delicatamente alla parete della stanza di comando e iniziò a ronfare come un ghiro.
“Ah, pazzo di un vecchio ubriacone! Cosa me ne faccio di una cosa che neanche vedo per acciuffare questo nemico imprendibile?”, pensò Carmin, sconfortato e rassegnato all’idea che quell’uomo non l’avrebbe mai preso sul serio.
Carmin aspettò, aspettò e aspettò. Niente, la creatura non si fece viva.
Squillò il telefono e Carmin accorse a rispondere. Era stato appena inviato l’ordine di tornare in base, un’altra squadra più attrezzata avrebbe continuato la missione. Carmin era diviso in due, da una parte era felice per il rientro, ma dall’altra cercava ancora risposte a tante domande che lo stavano perseguitando.
“Forse è meglio così”, si disse.
Gramb si svegliò e dopo un grosso rutto e con la voce ancora impastata dal sonno chiese ridacchiando: “Si torna a casa quindi?”
“Sì capitano, torniamo a casa”, rispose Carmin confuso. Un attimo prima voleva solo tornare a casa e ora che lo doveva fare per seguire un ordine ne era dispiaciuto!
Si misero in viaggio inserendo il pilota automatico ed entrambi andarono a dormire. Carmin si cambiò lentamente: si mise una tuta isolante più leggera e, stiracchiatosi un po’ come un gatto, si buttò sul letto. Prima di prendere sonno si rigirò a lungo nel letto. I pensieri sbattevano sulle pareti del cervello come i frammenti spaziali sulla navicella in una tempesta di asteroidi. Si sentiva stanco e saturo di dubbi: troppe domande alle quali cercava di trovare una risposta senza alcun risultato. Iniziava ad avere mal di testa, ma poi ingurgitando il nodoso boccone cerebrale riuscì ad addormentarsi.
Passarono anni da quella missione e Carmin, ormai più uomo, sorseggiava un caffè caldo in compagnia di sua moglie. Accanto a loro, una bambina in una culla dormiva dolcemente, mentre le sue manine si serravano con vigore alla coperta e a un pupazzetto rosa. Non chiedeva di meglio: una casa, una famiglia, un lavoro finalmente sicuro. Ma era davvero tutto ciò che avrebbe potuto ottenere dalla sua vita?
Quello stesso giorno qualcuno bussò alla sua porta. Quattro tonfi pesanti. Carmin si alzò in modo distratto, preso ancora dalle sue domande e andò ad aprire. Illuminata dalla luce di quella mattina di primavera, Carmin riconobbe quella barbetta incolta: “Capitano! Che ci fai lei qui?”
“Bravo ragazzo, arzillo già di prima mattina vedo”, disse Gramb. Carmin gli lanciò diverse occhiate e notò che, oltre a non essere cambiato quasi di una virgola, sembrava vestito come se fosse pronto per un’escursione. Cappellino girato al contrario con sopra il nome di una marca chissà quanto vecchia, vestiva poi una maglietta aderente grigia che lasciava intravedere il suo fisico ancora ben formato, pantaloni con vari tasconi e cerniere e per finire scarponcini attack.
“Posso entrare?” disse secco Gramb smantellando l’osservazione scrupolosa del suo ex co-pilota.
Riprendendosi, nel modo più elegante possibile Carmin disse: “Certo, le faccio strada io, ma non faccia troppo rumore, nella stanza accanto c’è una bimba che dorme.” Con il massimo rispetto Gramb entrò in quella dimora, salutò la donna, sfoggiando tutto il suo charme da vecchio pilota di navicelle e si chiuse in una stanza con Carmin.
Si sedettero al tavolo uno di fronte l’altro. Carmin sentiva crescere una certa tensione e, prima che potesse dire qualsiasi cosa, udì una voce che iniziava a parlare: “Sai, ne è passato di tempo e vedo che ti sei sistemato bene, sono orgoglioso di te”, disse Gramb sorridendo sempre di più, “ma credo che ci sia ancora qualcosa da fare. Non lo credi anche tu?”
Carmin a quel punto sciolse il suo nodo alla gola dicendo: “Ad esempio?”
“Più che sensata la domanda”, ridacchiò Gramb
“Non si smentisce mai, eh?” ripose Cramin alle sue risatine.
“Andiamo al sodo,” iniziò Gramb, “sento il bisogno di vivere con te un’altra avventura, ma tranquillo niente di pericoloso solo…”
Carmin si alzò in piedi scaraventando la sedia all’indietro per lo scatto e, puntate le mani al tavolo, disse: “Senta, non ho più intenzione di seguire nessuno o allontanarmi troppo dalla mia famiglia, quindi la prego di andare se…”
Gramb lo interruppe: “…solo una passeggiata”
“Una… passeggiata? Davvero?”
“Beh, perché no? Voglio farti vedere un bel posto, ti va?”
Carmin si sedette di nuovo, calmandosi. “Quando?”, bisbigliò.
“Adesso, altrimenti perché sarei vestito così?”, disse pavoneggiandosi Gramb.
“Ehi… così su due piedi, dovrei prepararmi, e poi mia moglie…”
“Non ci vorrà tanto, potrai tornare a casa domani mattina, dormiremmo fuori”, continuò il vecchio.
Carmin, stupito e incuriosito dall’insistenza di Gramb, accettò. Partirono dopo pranzo. Salirono sulla navicella del comandante ormai in pensione. Quella che era stata la loro inseparabile compagna qualche anno prima, non era cambiata di una virgola.
Iniziò il viaggio e viaggiarono velocemente, credetemi. Di galassia in galassia finché non scorsero un piccolo pianeta bianco lucente. Non aveva molti crateri sulla superficie e orbitava intorno a un altro pianeta di colore bluastro. Si infilarono una tuta spaziale risalente alle loro vecchie avventure e scesero sul pianeta. Lo sportello si abbassò lentamente, ma una volta toccato il terreno alzò un polverone bianco. La polvere spaziale si diffuse su tutta la superficie circostante rendendo la zona quasi magica. Prima un passo, poi un altro finché entrambi non ebbero i piedi sufficientemente saldi sul suolo che pareva duttile a qualsiasi pressione.
“Seguimi!” disse iniziando a zompare di qua e di là Gramb.
“Ehi, aspetti!” replicò Carmin.
La scena era quasi fiabesca: due vecchi colleghi che si inseguivano ridendo e saltando, ricoperti da capo a piedi di polvere bianca con il più infinito e affascinante spazio puntellato da stelle lucenti a fare da sfondo.
I due si fermarono su un’altura facilmente raggiunta grazie alla scarsa forza gravitazionale e si sedettero uno di fianco all’altro guardando lo spazio.
Gramb con le sue parole volle accompagnare quell’atmosfera: “Ti chiederai perché ti ho portato qui. Non lo so bene neanche io, eppure ci tenevo a farti venire in questo luogo dove arrivai tanti anni fa”, ne seguì uno sguardo interrogativo da parte di Carmin. “Magari guardando da qui quest’infinità qualche dubbio ti si schiarirà. Ricordo che ne hai sempre avuti molti, a partire dalle domande su quella stupida pietra del Mako che abbiamo inseguito a lungo e invano”, finì Gramb.
Carmin stava zitto. “Come si chiama questo pianeta?”, aggiunse dopo un po’.
“Il suo nome? Beh, non ne ho idea, credo qualche lunga serie di lettere e cifre. Come se non l’avesse, insomma. Vuoi provare tu a dargliene uno?”, chiese Gramb.
“Io? no…”, disse secco Carmin.
“Perché?”, chiese Gramb.
“Non ho molta originalità”, disse intristendosi il rosso.
“E invece sì che sei originale! Le tue domande mi hanno sempre fatto riflettere, sono riuscite a liberarmi dall’ossessione per quella maledetta bestia con quell’inutile pietra”, esclamò Gramb.
“Davvero? Grazie, capitano…”, disse Carmin mentre, nascoste dal casco, gli affioravano delle lacrime.
“E di cosa mi ringrazi? Piuttosto, su, spara un nome per questo pianeta”, disse rifacendosi burbero Gramb.
“Se devo dargli un nome, credo proprio che lo chiamerò Pahu Hopu.”
“Pahu Hopu? Che significa?”, chiese Gramb.
“Deriva dalla lingua di origine di mia moglie, significa obiettivo”, spiegò Carmin.
Gramb rispose: “Sì sì, mi piace. Casca a pennello”, chiuse il vecchio con grosse risate.
Carmin lo guardò e fingendosi offeso rispose: “Non rida di me…”
Gramb fece finta di nulla e proseguì: “La nostra escursione è finita, torniamo pure a casa. Prometto che non verrò più a darti fastidio. Pure perché la prossima volta sarai tu a farlo”.
Carmin annuì. Diede un’ultima occhiata a quella vista mozzafiato e capì che avrebbe ancora avuto bisogno in futuro di prendere in prestito energia da pianeti come quelli, così come dal suo amico e maestro.
Nicolò Meloni