FAI BEI SOGNI (M. Bellocchio 2016) Recensione di Loredana Brugali, 2^ classificata al David Giovani
E ora… Fai bei sogni
Può un singolo evento condizionare una vita intera? Si può improvvisamente scoprire che tutto ciò in cui si crede è in realtà falso e che si ha sempre avuto la verità sotto gli occhi, ma non si ha mai avuto il coraggio di aprirli per paura di soffrire?
31 dicembre 1969, Torino. “Fai bei sogni” appare come un debole sussurro alle orecchie del piccolo Massimo, addormentato e incurante di quello che sarebbe accaduto da lì a poco. Queste tre parole, che dovrebbero essere un usuale saluto della buonanotte di una mamma al suo amato figlio, risuonano invece come un vero e proprio addio.
Il bambino di soli nove anni rifiuta di accettare la scomparsa della donna più importante per lui, convinto che possa ricomparire, da un momento all’altro, da uno dei tanti scatoloni presenti in ripostiglio e nei quali era solita a rifugiarsi per non farsi trovare quando giocavano a nascondino.
L’abbraccio e il sorriso, che ponevano fine allo scherzo crudele e all’infondata disperazione di essere rimasti soli, vengono ora sostituiti dalla loro immagine che echeggia nella buia e silenziosa casa, si propaga velocemente nell’adolescenza e si perde infine nel pieno della maturità.
La pellicola si scurisce progressivamente, ma i suoi colori luminosi e vivaci non scompaiono mai definitivamente. Si riaffermano infatti con prepotenza nei vari flashback che si muovono tra le strade di Torino, Roma e Sarajevo, che si alternano al presente e che mostrano la loro influenza su di esso, come se fossero collegati in modo inseparabile da un cordone ombelicale che tarda a rompersi, almeno in un senso, da una delle due parti.
Massimo, non lasciando andare completamente il ricordo della madre, una dolcissima Barbara Ronchi dallo sguardo sempre un po’ perso in pensieri inafferrabili da chi la osserva, non riesce ad instaurare nuovi e stabili rapporti con gli altri, soprattutto con l’universo femminile. Appena vi si avvicina, o viene respinto o cerca una scusa per non addentrarsi troppo nelle sue profondità, avendo il terrore di potervi scorgere la felicità e raggiungerla veramente.
Si costruisce perciò uno scudo protettivo da cui non far né entrare né uscire il mondo rispettivamente esterno e interno. L’immaginazione infantile trasforma i mostri visti in televisione in amici e guide spirituali da sostituire ai compagni di scuola, agli insegnanti scolastici e religiosi, ai colleghi giornalisti e alla famiglia (nonni, papà e zia); nessuno dei quali ha mai avuto il coraggio di raccontargli la verità riguardo la morte che ha sconvolto la sua esistenza, dando addirittura per scontato che lui ne fosse a piena conoscenza.
Accorgersi di aver superato l’età della mamma, e di star quindi invecchiando, è il punto culminante del dolore. La corazza inizia a creparsi fino ad esplodere e rompersi del tutto in mille pezzi, togliendo Gramellini dall’isolamento, dall’incapacità di adattarsi alla società che lo circonda e dall’ignorare l’evidenza.
Il tempo impiegato per arrivare a questo fatidico momento è sottolineato dalla durata del film che, anche se appare forse eccessiva, rende bene l’idea dell’angoscia e dell’esasperazione sofferta dal protagonista, interpretato fedelmente da Valerio Mastandrea, che ha saputo immedesimarsi bene in una storia reale e farla sua, grazie anche all’aiuto dell’esperienza personale del regista.
Massimo può finalmente perdonare sia la madre per averlo abbandonato e privato del suo amore e affetto, sia se stesso, per averla accusata di tali atti egoistici e per non essersi pienamente goduto la sua giovinezza. È ora di recuperare il tempo perduto e di colmare il vuoto dell’anima, dando inizio ad una serie di cambiamenti, buttandosi d’istinto in un ballo sfrenato come solo i bambini sanno fare. Questa volta però senza la mano materna pronta a guidarti nei movimenti e con la nuova consapevolezza che i “se” sono il marchio di fabbrica dei falliti! Nella vita si diventa grande “nonostante” e che “la felicità non è figlia del mondo, ma del nostro modo di rapportarci a esso. Non dipende dalla ricchezza, dalla salute e neanche dall’affetto di un’altra persona. Dipende solo da noi”.