A TESTA ALTA
Come affrontare le proprie debolezze e difficoltà? Come reagire davanti alla paura e alla viltà? Dove trovare il coraggio di ammettere i propri errori e chiedere scusa, magari anche a chi, con atteggiamento arrogante, non è disposto ad ammettere i propri, di errori? Click! vi presenta un racconto che, in maniera non banale, ha il coraggio di portare luce sulle nostre debolezze e ci insegna a prenderne consapevolezza e ad affrontarle. A testa alta.
Mi ritrovavo in una situazione pericolosa, anche troppo per un ragazzo come me. Corpo esile, bassa statura, carattere forte come quello di una zanzara catturata tra le mani di un essere umano. Per di più, la mia bellezza esteriore non era il massimo… Non avevo nulla per cui tirarmela, potevo giocarmela soltanto sulla furbizia.
Era una giornata come le altre, un freddo e gelido periodo dell’anno, anche se per me l’intero anno era considerabile diaccio e rigido, date le catastrofi che dovevo affrontare. La mia famiglia non era mai a casa, di amici non ne avevo e se parlavo con qualcuno era per chiedere indicazioni stradali, o domandare ai miei compagni di classe i compiti che c’erano da fare.
Quel giorno però mi sentivo diverso: ero stufo, ne avevo le scatole piene di tutti i miei problemi e volevo cominciare a comportarmi un po’ come gli altri, magari facendo più il ganzo, o rendendomi più forte. Così mi alzai dal letto e cominciai a selezionare i miei vestiti in modo più accurato. Basta maglioni di lana da quattro soldi, basta scarpe usate e vecchie di mio padre: era il momento di farsi valere. Sgattaiolai nella camera di mio fratello, ancora in coma profondo, e sottrassi dal suo armadio una felpa nera e spessa col cappuccio e con la scritta verde della marca Monster. Pantaloni anch’essi di marca, Boy, neri con ai lati estremi delle gambe una striscia dove il logo si ripeteva modularmente in bianco dall’alto verso il basso. Scarpe Nike, berretto New York Yankees e felpa coperta con una giacca di pelle che avrei tolto solo all’interno della scuola.
Mi cominciò subito a salire l’ansia. Mio fratello teneva tutti i soldi per sé, per questo si poteva permettere un certo outfit, quindi rubai anche una banconota da 10 euro, tanto non credevo che per lui potesse essere un problema. Ma l’ansia salì perché sapevo che una volta tornato a casa non avrei avuto il coraggio di ammettere di avergli rubato qualcosa. Cominciai a sentirmi un po’ un codardo, però non gli detti troppo peso, d’altra parte erano solo vestiti.
Arrivai al pullman, salii e mi sedetti di fianco a un mio compagno di classe.
— Però! Che stile! Mi sorprendi oggi! —, disse lui con gli occhi spalancati.
— Ho deciso di cambiare, mi sono rotto di essere preso per i fondelli. —
— Eh, fai bene. Grey non faceva altro che parlare di te e dei tuoi modi di fare da ‘povero’ come diceva lui. Ma lascialo perdere, è uno sbruffone! —
Ci rimasi un po’ male, ma pensai che fosse proprio il momento di fare vedere che ero cambiato e che nessuno poteva sottomettermi.
— Ah sì? Grey ha detto questo? Beh, per me uno come lui può solo andare a rileggersi tutto il libro di grammatica da come parla. Ma lo hai sentito? Si crede il re della classe ma non sa formulare una frase di senso compiuto. E poi a nessuno importa di lui, fanno tutti finta, io lo vedo, li riconosco i falsi! Poi solo perché è bello le ragazze gli vanno dietro e ha un sacco di ‘amici’, ma sostanza zero —, mentii spudoratamente. Grey era davvero il re della scuola, l’unica cosa sulla quale non raccontavo frottole era riguardo al suo gergo.
Ma David, così si chiamava il mio compagno di classe, sembrava tenermi testa e continuammo a discutere di Grey. Solo una volta sceso dal pullman, mi resi conto che quello che avevo appena fatto era un’ulteriore mossa da codardo. Se davvero fossi stato un ragazzo tosto avrei dovuto dire tutto in faccia a Grey. Ma quella mattina percepii in me quello che non ero mai stato, un menefreghista.
Arrivammo in aula e la lezione cominciò. Avevo tutti gli occhi su di me, o meglio sul mio vestiario, e dei compagni sibilando mi facevano i complimenti. Tutto era perfetto, o quasi, se non fosse stato per i sensi di colpa sarebbe stato tutto una meraviglia. Passarono le ore, passò anche il primo intervallo, passarono altre due ore e di colpo tutta la mia sicurezza sprofondò al centro della terra. Grey, David e tutti i migliori amici del bullo della scuola mi si pararono davanti.
— Ohi, Pidocchio! È inutile che fai tanto il furbo, eh! Guarda che David mi ha raccontato tutto. Ti piace parlare male degli altri alle spalle, eh? Ma sei capace di dirmelo in faccia? Dai, che hai detto sul pullman? Parla! —
Mi sbatté contro il muro di schiena, guardai David e strizzai gli occhi per fargli capire il disprezzo che stavo cominciando a coltivare dentro di me nei suoi confronti, e poi buttai in gioco la stessa carta che avevo giocato per tutta la mattinata: la codardia.
— Guarda che io a David non ho nemmeno rivolto la parola! Che dici? —
— Guarda che bugiardo, Grey! Non ha il coraggio di dirtelo! È un codardo! —
Mi sentii umiliato davanti agli alleati di questo ragazzo. Ero solo, indifeso. Come avevo potuto illudermi di essere qualcuno che non ero e caricarmi questo fardello? Ero un debole, lo ero sempre stato, non è possibile cambiare da un giorno a un altro. Diedi retta a David e di nuovo tornai a fare ciò che quel giorno mi riusciva bene, il vigliacco. Scappai a gambe levate, e passai l’intervallo a nascondermi da quei mostri.
Ne uscii illeso, ingiustamente, e quando tornai a casa mi ritrovai a subire un ulteriore problema. Mio fratello aveva atteso per tutta la mattina il mio ritorno, e appena misi la chiave nella serratura della porta, la maniglia di quest’ultima si abbassò freneticamente e sulla soglia ritrovai mio fratello con un’aria minacciosa.
— Ascolta, è stata una giornata pesante, quindi non… —, venni interrotto da uno schiaffo improvviso.
Me lo ero meritato, ma comunque rifeci il vigliacco per la terza volta, perché mi richiusi in camera e attesi finché non ero certo che lui fosse uscito di casa. Sentii la porta d’ingresso sbattere, al che uscii dal mio rifugio.
Passarono i giorni e mio fratello mi perdonò, mentre tutta la scuola mi vedeva come un infamatore. La mia codardia mi portò alla solitudine, più di quanto già non fosse.
Poi però pensai: se non fossi stato così vigliacco, cosa avrei fatto? Avrei continuato a fingere di essere chi non ero? O avrei ottenuto più fiducia e più rispetto da parte di tutti? Una cosa mi era certa. C’era una persona che sicuramente non mi avrebbe mai e poi mai perdonato. Quella persona ero io stesso. Imparai la lezione, e da quel momento mi proposi di affrontare con coraggio tutte le situazioni, che fossi ritenuto ‘sfigato’ o meno.
Quel giorno pioveva a dirotto e alunni e professori erano sclerati: tutti correvano come sciagurati sotto al porticato della scuola, in modo da ripararsi dall’acqua che persisteva e batteva sul suolo quasi come se volesse spaccarlo. Io non riuscivo a capire il motivo per il quale scappavano dalla pioggia, a me rilassava l’impatto delle gocce d’acqua sulla mia pelle e i capelli inzuppati dal tempo.
Una volta che tutti entrammo in classe ci vennero restituite le verifiche di matematica. Presi quattro e mezzo e no, non ci rimasi proprio bene, ma quella volta accadde un qualcosa che poteva sembrare anche parecchio assurda. Dei miei compagni guardarono il segno rosso sulla mia verifica, e cominciarono a ridere.
— Guardate! Ha preso ‘quattro e mezzo’! Che sfigato! —
Allora io spontaneamente li guardai e sbirciai con la coda dell’occhio il foglio del mio compagno.
— Beh, e allora? Lo recupererò. Tu invece sei in grado di recuperare il tuo meraviglioso ‘due’ che riesco a leggere anche da due banchi di distanza? —
Tutti lo guardarono e lui divenne rosso dall’imbarazzo. David rise di gusto e ci guardammo con uno sguardo complice.
— Ti chiedo scusa per quella volta con Grey, non sono stato corretto. —
— Nemmeno io lo sono stato, e penso di dovergli delle scuse in quanto gli ho parlato alle spalle. —
Lui annuì e mi tese la mano che gli afferrai con una stretta sincera e mi disse: — Comunque anche io ho preso ‘quattro e mezzo’ —, e ci lasciammo sfuggire una risata leggera.
Ci mettemmo d’accordo, nella ricreazione ci saremmo diretti da Grey e io gli avrei posto le mie scuse.
Insomma, quella mattina ero riuscito a rispondere a tono al compagno che era intento a deridermi, avevo fatto pace con David e insieme ci eravamo accordati per chiedere perdono a Grey. Secondo me era un enorme passo per migliorare il mio difetto, mi sentivo soddisfatto di quello che stavo riuscendo a fare. Mancava solo un ultimo passo.
Giunto il momento della ricreazione, io e David ci avviammo davanti all’aula di Grey e lo aspettammo. Non appena uscì dalla stanza si ritrovó davanti a noi due.
— David, che ci fai qui con quel vigliacco? —, chiese Grey accigliato.
— Beh, ti posso giurare che non è in cerca di risse. —, affermò con tono calmo e fermo David.
— Allora, che vuoi? —, mi domandó Grey con fare superiore.
— Ti chiedo scusa. Non sono stato corretto a parlarti alle spalle e hai ragione a darmi del codardo, perché non ho saputo affrontarti in modo maturo, me la sono solo data a gambe. Per questo ti sto chiedendo scusa, ho riconosciuto i miei errori… Ma spero che tu riconosca i tuoi. — conclusi.
Non me ne andai, altrimenti avrei buttato tutto al vento con un gesto. Dovevo rimanere lì, aspettare la sua reazione. Il suo viso ascoltandomi si era rilassato, ma sul punto finale, quando gli chiedevo di riconoscere i suoi errori, era sbiadito: mi accorsi che non sapeva riconoscerli.
Nell’attesa di una risposta che sapevo non sarebbe arrivata, mi congedai:
— È tutto, scusa ancora, a presto. —, così mi diressi in classe soddisfatto.
Il mio difetto lo avevo finalmente risolto e avevo trovato il coraggio per affrontare anche gli altri che probabilmente non avevo ancora individuato, ma che avrei incontrato presto.
Giorgia Edgecombe