VOCI DALLA RESISTENZA
Nel seguente testo sono raccolte le testimonianze pervenute a me dai miei prozii sui loro genitori, nonni e zii durante il ventennio fascista e il periodo dell’occupazione nazifascista.
Trascrivo e pubblico queste testimonianze per mostrare quanto, contrariamente al pensiero di molti, il periodo del secondo conflitto mondiale non sia così storicamente lontano e come, talvolta, abbia ancora ripercussioni sul presente e sulle nostre famiglie.
Relativamente ad alcuni miei congiunti, la cui storia è stata riportata nel seguente articolo, purtroppo sono giunti a me pochi o, in alcuni casi, nessun documento relativo a deportazione, internamento e rimpatrio. In questi casi, mi sono basato sulle testimonianze indirette dei loro figli o nipoti.
IL VENTENNIO FASCISTA
Nel novembre del 1935, alla nascita di Francesco Simonetti, primogenito di Ernesta Severgnini e Angelo Simonetti, ossia due dei miei bisnonni paterni, come predisposto dal Partito Nazionale Fascista, il potestà di Crema conferì alla madre 500 Lire per il primo figlio. Fu però la suocera di Ernesta, Antonia Vanucchi, a presentarsi di fronte al potestà reclamando di voler riscuotere la somma di denaro perché più bisognosa di quei soldi rispetto alla nuora. Dopo una breve discussione con il podestà di Crema, Antonia riscosse le tante agognate 500 Lire.
Sempre nell’inverno 1935, il regime fascista organizzò la manifestazione dell’Oro alla Patria; i fascisti si presentarono così anche a casa Simonetti per riscuotere l’oro. Ernesta, che non voleva cedere la sua fede nuziale si pose contro il fascista, che urlandole contro di vergognarsi di non voler devolvere il suo oro alla patria, per la quale il marito prestava servizio militare, le strappò la fede dal dito e la portò via.
“Il Duce negli anni in cui sono nato dava i vestiti per i bambini alle famiglie con tanti figli, noi eravamo già in quattro. […] Quando è andata a prendere i vestiti (Ernesta, la mamma di Francesco), quelli più belli li hanno presi le signorine benestanti, a mia mamma hanno dato un mare di roba ma erano tutti stracci. Doveva cucire una cosa e l’altra, non aveva neanche la macchina da cucire, non li ha voluti (i vestiti), li ha piantati lì ed è venuta via.” Frammento di una testimonianza di Francesco Simonetti
Sempre negli anni ‘30 alle famiglie con molti bambini spettavano 5 chili di zucchero gratuiti, Ernesta Severgnini, in accordo con la signora che gestiva il negozio di alimentari, scambiava i chili di zucchero che le spettavano con altre vivande.
Durante gli anni del Ventennio, nel giorno di sabato, la popolazione, in particolare modo ragazzi e uomini, era costretta a prendere parte alle adunate del sabato fascista e alle marce militari. Un sabato, il giovane Domenico Severgnini, fratello di Ernesta, raggiungendo in bicicletta il luogo dell’adunata, a Chieve da Moscazzano, sulla strada sterrata, però, bucò la ruota; ciò lo costrinse a proseguire a piedi e a fare tardi. Giunto sul luogo dell’adunata, un fascista, ricordato dai fratelli e nipoti presenti come un uomo di bassa statura con gli stivali di pelle marrone e il frustino in mano, punì Domenico picchiandolo.
IL SERVIZIO MILITARE OBBLIGATORIO E LA CAMPAGNA DI RUSSIA
Nel gennaio del 1942, Angelo Simonetti, iscritto nel distretto Militare di Cremona dall’ottobre del 1932, venne richiamato alle armi nel 20º Reggimento Artiglieria Autotrasportabile “Piave”, dove risulta prestare servizio come conducente. Fu immediatamente ricollocato in congedo illimitato poiché padre di 4 figli. Nel maggio dello stesso anno Angelo rispose alla chiamata di controllo, recandosi forse a Trento (purtroppo la dicitura nel documento militare in mio possesso è poco leggibile). Lui ed i suoi commilitoni furono radunati nel piazzale di questa per constatare chi tra loro potesse partire per il fronte o meno. Chi aveva a carico una moglie con figli era infatti esentato dalla partenza, e quando il superiore chiese a chi poteva restare in Italia di alzare la mano, Angelo, nonostante avesse a casa 4 figli, tenne abbassata la mano. Fu un compagno d’armi di Angelo che, accortosi per tempo della sua mano abbassata, gli prese il braccio e lo alzò, risparmiando al mio bisnonno, probabilmente, il trasferimento al fronte.
Pierino Severgnini nato nella frazione di Cremosano del comune di Campagnola Cremasca l’8 marzo 1912, dopo aver preso parte alla campagna di Albania tra il dicembre del 1940 e il marzo del 1941, al momento dell’inizio della guerra contro l’U.R.S.S. stava prestando servizio a Novara.
Pierino Severgnini Una sera del 1942, mentre Pierino si trovava a casa, nel comune di Capergnanica, insieme alla moglie Maria e ai suoi due figli ed era allettato e febbricitante, i fascisti arrivarono per prelevarlo in quanto sarebbe dovuto partire per il fronte orientale come fante della 54º Reggimento Fanteria nella divisione Sforzesca. Mentre saliva su un camion dove si trovavano altri ragazzi, e fino al momento prima della partenza di questo, la madre lo implorava di scendere piangendo, ma Pierino, nonostante fosse malato, decise di partire ugualmente. Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto le persone a lui più care. Il 22 giugno 1942 Pierino partì per la Russia e il 29 agosto successivo risultava ricoverato nell’ospedale da campo n.42 dal quale venne dismesso il 4 settembre successivo.
Pierino risulta disperso nell’area del fiume Don il 25 gennaio 1943 e deceduto il 31 gennaio successivo. Sarà durante le ultime fasi dell’estenuante marcia di ritirata dell’Armata Italiana in Russia, ormai entro le linee amiche, o forse a causa di un bombardamento, che Pierino morirà, per poi essere probabilmente sepolto in una fossa comune dalla popolazione locale.
Maria Zemira deve sempre aver nutrito forti rimorsi per non essere riuscita a convincere il figlio a non partire per la Russia. Quando mio nonno Spartaco Roncaglia per lavoro si trasferì in Russia, Maria Zemira gli chiese di cercare il figlio disperso.
“La madre di mia suocera mi ha chiesto di andare a cercarlo, io però ero a tremila chilometri dall’area dell’avanzata italiana e soprattutto non sapevo dove andare a cercarlo. Loro (i russi) quando c’erano questi morti in giro, gli uomini del villaggio vicino mandavano le donne a seppellirli, questo in primavera, perché d’inverno il terreno è duro come cemento armato.”
1943 – 1945: LA RESISTENZA E L’AIUTO AI SOLDATI ALLEATI
Annibale Simonetti, classe 1938, racconta che il ricordo più terribile della guerra, oltre alla fame che lo portò a raccogliere da terra un pezzo di pane circondato dalle formiche e, dopo averlo pulito, a mangiarlo con un suo amichetto, fu quello di una fucilazione avvenuta a Chieve Cremasco, dove un possidente ricercato dai fascisti venne trucidato mentre rientrava nella sua casa.
Sempre Annibale ricorda che verso la fine della guerra mentre lui, il fratello Francesco e il padre erano nei campi a raccogliere l’erba per le mucche del nonno, un aereo britannico che sorvolava quell’area planò verso di loro per identificarli, constatando che non si trattasse di nazifascisti. Solo dopo i Simonetti scoprirono che l’aereo faceva parte di uno stormo che stava agendo nell’azione di distruzione di un ponte sul fiume Adda.
Nel cremasco, da quanto mia zia Maria Simonetti ricorda dei racconti di sua mamma Ernesta, i nonni Emanuele, reduce del primo conflitto mondiale, e Maria Zemira, dovevano aver nascosto nelle campagne e nel sottotetto della loro cascina qualche soldato inglese e americano. Durante l’inverno del 1944 uno di questi si ammalò. Ernesta, che si era trasferita temporaneamente a casa dei genitori con i figli, raccontava che una notte sentirono bussare alla porta. Lei, spaventata, intimava di andare via chiunque si trovasse dietro la porta dicendo che era da sola, quando sentì chiedere: “Volere thè, volere thè”. Ernesta, capì che si trattava di un soldato inglese, ma fu ancora più impaurita pensando che il soldato dicesse “volere te” e non “il thè” e volesse quindi molestarla. Cercò quindi di scacciarlo rimproverandolo, in quanto non solo gli veniva data ospitalità, ma ora si permetteva anche di importunarla. Uno dei presenti nella stanza, forse Zemira, intuendo che si trattava invece di una richiesta di aiuto, disse di aprire: si ritrovarono così di fronte solo un povero soldato febbricitante.
“Eh, tutti questi soldati, poverini, via da casa, lontani dalla famiglia. C’era chi piangeva, chi cercava di distrarsi, chi veniva in casa nostra e la nonna (riferendosi a Maria Zemira) diceva: – Mangiamo tutti insieme.”
Andrea Severgnini, classe 1925, fratello di Ernesta, a Chieve Cremasco entra a fare parte della ronda, un gruppo di quattro o cinque giovani ragazzi che, per non andare in guerra, quando la sera i fascisti giravano nelle case per cercare i giovani disertori, scappavano in campagna. I ragazzi che invece venivano trovati dai repubblichini erano portati in caserma per poi essere mandati al fronte o nei campi di concentramento in Germania.
Francesco e Annibale Simonetti ricordano che a Chieve Cremasco, alla fine della guerra, il gerarca fascista insieme alla moglie, alla figlia e a quattro maestre del paese furono portati nella piazza del paese e fatti sedere, quindi rasati e poi la loro testa cosparsa di catrame.
UNO SGUARDO AL SUD ITALIA
Giuseppe Mastropierro nasce nel gennaio del 1937 a Molfetta, in Puglia. Qualche anno più tardi il padre, Mauro Mastropierro, è chiamato sul fronte albanese dove rimase per qualche tempo, fino a quando, dopo essersi strappato i denti, insieme a un compagno riceve il congedo. Giuseppe ricorda le sorvolazioni su Bari a opera della Luftwaffe.
“Di bombardamenti io non ne ho sentiti, io ricordo i fari della contraerea che illuminavano il cielo e il passaggio degli aerei. […] Quando suonava l’allarme antiaereo scappavamo sempre nelle campagne dopo la chiesa della Madonna dei Martiri. Mi sembra di ricordare, ma non posso dirtelo con certezza, che nei fossati ai lati delle campagne ci fossero alcuni militari.”
Giuseppe ricorda simpaticamente che durante una delle fughe dagli attacchi aerei in campagna, un pomeriggio d’estate lui e la madre videro una signora tastare dei fichi per vedere se questi fossero maturi.
Durante l’occupazione Alleata di Molfetta spesso le strade venivano attraversate dai veicoli americani. Un pomeriggio, mentre Giuseppe e quattro dei suoi amici giocavano a pallone per strada, malauguratamente la palla finì in strada mentre un Jeep americana stava per passare. Un amico di Giuseppe corse per cercare di riprenderla. I bambini cercarono di fermarlo dicendogli di non andare, e addirittura uno dei bambini lo prense dalle bretelle di tela che però si spaccarono. Il ragazzino finì in strada, morendo schiacciato dalla Jeep americana.
“Vedi, la differenza che c’è dal nord al sud, è che io non posso dire di avere visto i fascisti […] L’occupazione è stata nel centro e nel nord, ma da noi era tutto diverso”.
L’ESPERIENZA DEI LAGER NAZISTI
Giuseppe Severgnini “Beppo” venne deportato ad Auschwitz II – Birkenau, con tutta probabilità tra l’autunno e l’inverno del 1943, come Internato Militare Italiano, insieme anche ad altri soldati italiani.
“Lo zio nominava sempre il campo di concentramento che fanno vedere spesso in televisione, Birkenau.”, afferma la nipote Maria Simonetti.
Nel lager Giuseppe venne sottoposto ai maltrattamenti delle SS e ricordava di essere stato più volte costretto a spostare pesi da un punto all’altro del campo in continuazione.
Nei mesi di internamento a Giuseppe fu raramente concesso di inviare a casa lettere, le quali vennero però censurate; sempre durante il periodo della prigionia riuscì a intrattenere una corrispondenza con il fratello Mario, anche lui internato nei lager nazisti.
Liberato dall’Armata Rossa nel gennaio 1945, “Beppo”, qualche mese più tardi venne rimpatriato in Italia. Mentre si trovava su un camioncino che aveva lo scopo di riportare gli ex deportati alle varie città di provenienza, Giuseppe, riconoscendo il territorio cremonese, del quale era originario, convinto che la propria casa fosse a poca distanza da quel punto, chiese al camionista di fermarsi e farlo scendere per proseguire a piedi. I pochi passi che avrebbero dovuto separarlo da casa erano in realtà 15 chilometri di strada. Arrivato nella cascina dove abitava prima della guerra, la madre, Uberti Foppa Maria Elisabetta Zemira, scambiandolo per un delinquente ed impaurita nel vederlo avvicinarsi a lei, cercò di allontanarlo dicendogli di essere da sola e di non avere nulla. Allora “Beppo” la tranquillizzò dicendole di essere suo figlio e chiedendole se non lo riconoscesse. Quando si avvicinarono l’uno all’altra, entrambi caddero a terra svenuti per l’emozione.
Maria Zemira ricordava la visione del figlio dopo l’internamento come quella di uno scheletro con delle gambe sottilissime.
“[relativamente a Giuseppe Severgnini] Lo zio Beppo è rimasto segnato […], tante volte era sovrappensiero, gli chiedevamo: “Zio a cosa stai pensando?”, e lui rispondeva: “Eh, se sapessi…”, allora noi dicevamo: “Massì, zio, va bene, sono passati cent’anni”. Noi lo tiravamo su, però il suo cervello tornava indietro, a quei giorni”: questi i ricordi di Maria Simonetti su suo zio Giuseppe.
Anche Mario Severgnini, negli anni tra il 1943 – 1945 subì l’esperienza della deportazione e dell’internamento nei campi di concentramento nazisti. Prima di essere condotto in Germania, Mario era stato arruolato nelle file partigiane nell’area di Montecassino dove combattè al fianco dei soldati Alleati. Da quello che rimane dei suoi racconti sappiamo però che venne catturato dai tedeschi durante un’ammucchiata e trasferito nei lager. Fino a qualche anno fa, Maria Simonetti aveva ancora le lettere che i suoi zii Mario e Giuseppe si scambiavano, ma anche le ultime missive ricevute da Ernesta dal fratello Pierino prima della dispersione. Purtroppo, dopo diversi passaggi di mano in mano sono tutte andate perse.
Agostino Simonetti, fratello minore di Angelo Simonetti, nasce il 14 settembre del 1914 nel comune di San Bernardino, Crema.
Il 9 settembre 1943 mentre prestava servizio nel 17º Reggimento Fanteria a Cremona, venne catturato da una pattuglia tedesca e, in quanto non aderente alla Repubblica Sociale Italiana, deportato in Germania. Giunse in territorio tedesco il 20 settembre successivo, dove venne registrato nell’Arbeit Kommando 16005 dello Stammlager XIII D di Norimberga.
Il 25 agosto 1944, in seguito a trasferimento, è certificato il suo arrivo al campo di concentramento di Ansbach, sottocampo del lager di Flossenbürg, dove Agostino fu convertito da Internato Militare Italiano a Lavoratore Civile.
Durante la detenzione, Agostino si ritroverà per casualità insieme al fratello Gregorio, anche lui Internato Militare Italiano. Dopo la liberazione da parte degli Americani avvenuta a Norimberga il 15 aprile del 1945, i due fratelli Simonetti compiono il loro viaggio di ritorno in Italia a piedi.
Agostino viene rimpatriato in Italia il 25 luglio 1945.
Francesco Simonetti ricorda ancora con grande stupore il giorno del ritorno a casa dei suoi zii dalla prigionia, avvenuto il 3 agosto 1945, raccontando che questi tornarono a casa con una sacca piena di lenzuola bianchissime (a detta sua le più bianche che avesse mai visto fino a quel momento); ricorda però anche la visione di due uomini magrissimi e malridotti.
I fratelli Simonetti non sono gli unici a tornare dalla prigionia con dei “souvenir”, infatti anche Domenico Severgnini, internato in Germania, tornò in Italia con due cavalli rubati in qualche stalla sulla strada di ritorno verso casa. Invece, il fratello Mario porta a casa due bombe a mano alle quali, preso da un attimo di follia, decide di togliere la sicura per poi poggiare i due deflagranti sulla mensola sopra al focolare. Fortunatamente qualcuno in casa se ne accorse e rimediò reinserendo la sicura nei deflagranti.
Questa è la vicenda delle famiglie Simonetti e Severgnini, ma è anche la Storia che hanno vissuto numerose famiglie italiane negli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale.
Lorenzo Roncaglia