LA SCRITTURA COME TERAPIA. Intervista alla scrittrice Natalia Marraffini
Girando per i corridoi della scuola si incontrano molte persone, le vediamo per un istante e ci facciamo un’idea di loro che è solo superficiale, come una maschera. Sotto, però, c’è una persona tridimensionale, con esperienze e passioni. Tutti abbiamo incontrato l’educatrice Natalia Marraffini nei corridoi, ma pochi di noi conoscono la sua passione per la scrittura.
Con questa intervista abbiamo intrapreso un viaggio su cosa sia per lei la scrittura e quanto per lei sia importante. Siamo riusciti a conoscere meglio il suo libro Off-line. Zona rossa e la sua esperienza nell’elaborazione dei traumi. Ci ha così offerto una nuova visione sui tabù legati agli abusi e alle violenze.
Ciao Natalia, vorremmo iniziare l’intervista chiedendoti da dove nasce la tua passione per la scrittura.
La mia passione per la scrittura nasce da bambina quando mia madre, ancora prima che imparassi a scrivere, mi regalò un diario segreto, uno di quelli con i gattini. Me lo regalò pensando lo usassi per disegnare, ma io le dissi che non era fatto per quello scopo, così le iniziai a dettare le cose da scrivere. Mia madre è argentina, quindi le prime pagine sono tutte scritte in spagnolo, poi ci siamo italianizzati e ho cominciato a scrivere io.
Sull’ultima pagina di questo diario, durato cinque anni, ho scritto: “Mi è piaciuto molto scrivere su questo diario, spero di non smettere mai”, e così è stato.
Cosa ti ispira maggiormente quando scrivi?
Siccome la scrittura mi accompagna da sempre, scrivo anche le cose più banali. La sera, ad esempio, scrivo ciò che sento e ciò che è successo. Non voglio però pubblicare tutto quello che scrivo, questo tipo di condivisione non mi interessa. Preferisco che vengano pubblicate solo le cose che secondo me potrebbero avere un valore anche per altri. Io sono ispirata da tutto e scrivo tutto, tuttavia credo che solo alcune cose meritino di essere condivise.
Ci sono dei temi in particolare che preferisci trattare?
Il mio podcast ad esempio parla di millennials, è diretto a persone della mia età, ai giovani che entrano nel mondo del lavoro, che finiscono l’università, che hanno relazioni fluide, che vivono questo mondo precario e liquido. Ho anche prodotto una serie di audio racconti che nel tempo hanno avuto dei buoni riscontri in alcuni concorsi e sono stati pubblicati in diverse riviste e che trattano temi vari e disparati come fantascienza, la violenza sulle donne, il mare.
Il libro che ho scritto, Off-line. Zona rossa, è sul tema del lockdown, della scuola e della mia prima supplenza. Ha un punto di vista autobiografico e tratta anche l’elemento della violenza, in particolare il recupero di ricordi rimossi, la violenza sull’infanzia, ma anche violenza sulle donne. Riguardo a questo tema ho inserito un confronto al femminile sia in orizzontale, con altre vittime, che in verticale, quindi con le donne della generazione precedente. Il fulcro e la tematica che amo trattare di più in generale è un dialogo con i modelli femminili che esistono, quelli del passato, del presente e del futuro.
Prima ci hai parlato del podcast. Come è nata l’idea per “Confessioni di una millennial 2022”?
Qualche anno fa ho iniziato a pubblicare su alcune riviste perché avevo voglia di condividere un po’ di più i miei scritti. Per questo tra il 2018 e il 2019 ho inviato i miei racconti a tantissime riviste letterarie e ho pubblicato con diverse redazioni. Il direttore di una di queste riviste letterarie online amatoriali un giorno mi scrisse dicendomi che voleva attivare una sezione podcast con i miei racconti e la mia voce. Abbiamo girato solo una puntata prima che il progetto naufragasse. Questa idea però si era radicata in me e non volevo fermarmi lì, solo che non sapevo come portarla avanti senza nessuno strumento. Alla fine ho incontrato dei miei vecchi amici che hanno una radio, si chiamano gli Svalvolati On Air e mi hanno aiutata a girare il podcast completo. Con loro si è realizzato veramente il progetto. Dalla prima registrazione alla conclusione degli episodi è passato un annetto.
Ci puoi parlare del tuo libro?
Vi posso dire che lo stile del libro è un po’ ibrido, non è né un romanzo né una raccolta di racconti, ma è un insieme di lettere, pagine di diario, articoli, racconti che nell’insieme compongono una storia. Anche il filo narrativo, pur se univoco, è frammentato. Quindi il risultato è un po’ strambo.
A chi sono indirizzati i messaggi dei podcast e del libro?
Nel trailer del podcast dico che ho tante amiche timide: l’idea è proprio quella di dedicarlo alle mie sorelline, alle mie amiche e alle me del passato. Il libro invece l’ho scritto perché lo desideravo per me stessa e per rielaborare una parte traumatica della mia vita. Secondo me può piacere e interessare molto a chi ha subito delle violenze e a chi è vicino a chi ha subito delle violenze, per capire come si può ricordare quello che non si ricordava.
Quanto è utile, per te, raccontarti per iscritto?
Nel 2020 ho ricordato delle esperienze che avevo completamente rimosso di abusi e violenze subite nell’infanzia. Per circa 5 anni della mia vita sono stata in mano a queste persone che hanno abusato di me: i miei genitori non se ne sono mai resi conto e io l’avevo completamente rimosso, nel mio sviluppo non ricordavo quasi niente. Ho vissuto queste esperienze negative sia in prima persona che da fuori: durante l’infanzia ho visto altre vittime subire quello che ho subito io, inoltre quando i miei genitori hanno divorziato anche tra loro ci sono stati degli episodi spiacevoli.
Alle superiori e alle scuole medie non ricordavo più niente. Ho conosciuto altre vittime che a un certo punto si sono dette di voler dimenticare ed effettivamente per un lasso di tempo non se ne sono ricordate. Nel mio caso non ricordavo quasi niente dell’infanzia fino al 2020, quando ho rivissuto delle dinamiche che mi hanno rievocato quelle esperienze, dinamiche nelle quali io non ero in un contesto di violenza ma in cui si sono riattivate prima delle sensazioni fisiche e poi dei ricordi. La scrittura è stata una compagna fondamentale per affrontare questo percorso difficile.
Adesso che hai ripreso consapevolezza riuscirai ad accettare e lasciare un po’ alle spalle questa cosa?
Questo è ancora è un obiettivo, non so se ci sarà un punto di arrivo, non so che tipo di punto di arrivo sarà e non so quale tipo di evoluzione ci sia in mezzo. Penso che sia una cosa soggettiva: c’è chi non vuole raccontarlo e lo vuole elaborare in modo autonomo con se stesso, c’è chi nel parlarne con gli altri trova un gran benessere. Io in questo momento sono a un buon punto di consapevolezza e di accettazione, di sicuro però non posso dire che sto bene e che sono serena con questo vissuto, la mia vita quotidiana è ancora molto intaccata dalle conseguenze psicologiche di questi abusi.
Penso che ciò che mi è accaduto sia una cosa di tutti i giorni, è brutto da dire, ma succede spesso ai bambini. La verità per me è che è succede da sempre, ma il tabù è tanto grande che è impossibile parlarne, le persone non hanno il coraggio nemmeno di pensarlo. La violenza d’infanzia e la violenza sulle donne spesso sono collegate. Nei contesti nei quali io subivo degli abusi c’erano anche delle donne che sapevano e non hanno parlato, certe donne sono vittime che diventano carnefici perché sono tanto dentro a queste dinamiche tossiche, distorte e malate che a quel punto pensano che quella cosa sia giusta, che sia la normalità. In tantissime storie c’è una donna che sapeva o con cui la vittima, sia donna che uomo, si è confidata e che ha detto di non dire niente a nessuno, che non è niente di che, che non è grave, che non è importante e che non serve parlarne. Incontrando altre vittime nel mio percorso di rielaborazione sono rimasta sconvolta perché non mi immaginavo che così tante avessero una persona accanto che ha detto loro di tacere. Per me non ha nessun senso ed è per questo che io mi sento bene a parlarne e a condividerlo nei termini in cui in questo momento mi sento di fare. Mi piace farlo su youtube e per iscritto. Se magari qualcuno mi chiede delle cose un po’ più intime faccio ancora fatica: diciamo che ci sono delle cose che preferisco tenere per me.
Quale tipo di scrittura è più utile per rielaborare certi traumi?
Io scrivo dalla mattina alla sera, quindi, essendo parte integrante della mia vita, non posso che consigliarla. Però credo che ognuno debba trovare il suo strumento nel percorso, che non passi per forza dalla scrittura. Per me la scrittura è fondamentale e la consiglio a tutti.
A livello di utilità per la rielaborazione dei traumi è molto utile un tipo di scrittura in particolare, quello di scrivere e non rileggere più, scrivere e buttare via. Questo tipo di scrittura terapeutica tanti psicologi la consigliano e la propongono come terapia se il paziente si trova bene con questo strumento.
Oltre che scrittrice, sei anche una docente di filosofia. Come la filosofia ha contribuito nella tua scrittura?
La filosofia ha contribuito sicuramente tantissimo e credo che nel mio libro ci sia una rielaborazione filosofica visibile nello stile di scrittura.
Quando ho finito il liceo e ho iniziato l’università il mio unico obiettivo era quello di laurearmi in filosofia. La scrittura invece è una cosa che mi accompagna da sempre nella vita: con il tempo si sono compenetrate. Entrambe mi reggono in piedi in qualche modo. Per me la cosa più importante è essere motivata, avere l’ispirazione, fare qualcosa che veramente mi coinvolge, mi attiva.
A scuola da studentessa come ti sentivi?
Io non avevo ricordi dell’infanzia, era come se la mia vita fosse cominciata tra i 10 e i 13 anni. In adolescenza ero una disagiata, ero un po’ snob e antipatica. Non stavo bene, ero ossessionata dalla scrittura e dalla segretezza della scrittura, era quasi un disturbo: avevo bisogno di scrivere e vivevo con angoscia il fatto che qualcuno potesse leggere quello che scrivevo, perché un tema fondamentale del trauma è la vergogna. Adesso, con il senno di poi, capisco perché ero così fissata con la segretezza, con la paura che qualcuno leggesse qualcosa di mio e scoprisse cosa provavo veramente. Avevo pochissime amicizie, non riuscivo a essere una persona solare, spensierata e che parlava con gli altri. Avevo tre amiche in classe e con gli altri non parlavo.
E con i professori?
C’era la prof di filosofia, che tutti odiavano, ma che io veneravo. Era una situazione un po’ strana, perché trovavo in lei e nella materia delle dinamiche mentali in cui riuscivo a riflettermi e vedermi, era un po’ su un piedistallo per me. Con gli altri professori non avevo dei grandissimi rapporti, ma ero comunque molto motivata a studiare, a diplomarmi e poi andare all’università
In seconda liceo però mi stavano per bocciare perché facevo troppe assenze, sintomo che forse c’era qualcosa che non andava. D’altronde nel primo anno delle superiori avevo fatto il professionale, perché i miei genitori e il contesto sociale mi avevano suggerito quella scelta, in seconda invece ho cambiato scuola e sono andata al liceo socio-psicopedagogico a Villa Greppi e ho fatto gli esami integrativi per il passaggio: quindi quell’anno lì è stato particolarmente tosto. Avevo avuto due nuovi inizi, l’anno prima e quell’anno, e avevo un sacco di materie, come latino, che avevo dovuto studiare in un’estate.
Però, dopo quell’anno critico, le materie scolastiche sono state un fuoco di motivazione. I professori non li amavo, il prof di pedagogia però lo ricordo con affetto, di prof. di psicologia poi ne ho girati tanti per la storia del precariato, ma me li ricordo abbastanza. Se invece penso ad altri prof faccio più fatica a ricordarli.
Passando alla tua vita privata, i traumi hanno influito nelle relazioni romantiche che hai avuto?
Tantissimo, l’ho capito con il senno di poi.
Una cosa bizzarra è che quando ero adolescente avevo un senso di vendetta ingiustificato verso i ragazzi, in particolare volevo provarci con loro senza però farci niente, li volevo illudere e farli rimanere male. Ero cattiva, me ne rendo conto, perché farli stare male era un mio obiettivo inconscio, però lo capisco solo ora. Dopo quella fase ho avuto una prima relazione di 2 anni con un ragazzo che aveva 10 anni in più di me: è interessante questa cosa della differenza di età, e non è stato l’unico. Più avanti ho avuto anche un altro ragazzo con cui non è durata tantissimo, quasi 1 anno, che aveva 12-13 anni in più di me. All’università ho poi avuto una storia di 6 anni: è stata una relazione terapeutica basata sul confronto reciproco. Tutti e due avevamo dei grossi traumi, delle storie pesanti alle spalle. Questa storia lunga è stata per entrambi uno scambio, una crescita e una riparazione psicologica molto forte.
Quindi c’è stata anche la volontà di stare insieme per questo motivo?
Io adesso sono convinta di sì, ora che sono passati alcuni anni.
Chi ha iniziato questa relazione?
C’è un dibattito su questo, nel senso che facevamo il giornalino letterario dell’università. Lui ha sempre detto che io mi sedevo vicino a lui ad attaccare bottone… Nella mia mente in realtà no, nella mia mente per caso accanto a me c’era la sedia vuota. Probabilmente sono stata io a sedermi apposta accanto a lui, ma per il tema del trauma non riuscivo ad avere consapevolezza delle cose che facevo per attirare l’altra persona o comunque non volevo vedermi dalla parte di chi desiderava attrarre.
Questa è una riflessione che ho fatto e mi ha sempre colpito che io avessi l’idea che è stato lui ad approcciarmi, quando lui ha sempre visto che ero io ad andare a parlargli. Lui l’ha vista come se io avessi buttato l’amo e lui avesse solo dovuto invitarmi a uscire.
Quanto è importante organizzare laboratori di scrittura per te?
Io tengo un piccolo corso di scrittura creativa a Osnago, all’Arci. Ogni 5 incontri riaprono le iscrizioni, l’obiettivo è arrivare fino a giugno. L’ho attivato perché a me ha dato tanto benessere partecipare durante l’adolescenza a dei gruppi di questo genere. Mi ricordo che il professor Zumbo di italiano di villa Greppi faceva dei laboratori la sera per adulti e adolescenti: è stato bello perché per la prima volta sono uscita dalla vergogna di mostrare le cose che scrivevo. Per questo i corsi di scrittura sono importanti: scrivere deve essere un tuo strumento, ti deve piacere, se si ha un’inclinazione per l’arte allora bisogna cercare di sfociare in quell’ambito. Io non faccio solo scrittura, ma anche arte-terapia e dei progetti con le cose che scrivo.
In questo cammino hai avuto anche uno psicologo che ti ha seguita o hai fatto tutto da sola?
Ero in terapia da qualche mese e stavo per chiudere il percorso quando ho iniziato a ricordare. Mi sono decisa ad andare da uno psicologo per sciogliere un po’ di nodi emotivi, ma quando stavo per chiudere mi sono ritrovata a sentire cose dissonanti con la realtà, per esempio provavo paura anche se mi trovavo in un contesto normalissimo. Mi rendevo conto di questo distacco bizzarro, allora l’ho subito portato in terapia e da una terapia classica, ovvero parlata, sono passata a un approccio più specifico per il trauma e i ricordi, l’EMDR, in cui si lavora proprio sul ricordo per rielaborare i traumi. Ancora adesso sono in terapia.
Questa terapia ti sta aiutando?
Mi ha aiutato, continua ad aiutarmi e credo che mi aiuterà ancora per un po’, ma non penso che mi aiuterà per sempre e spero di chiuderla, prima o poi, anche se molte persone dicono che lo psicologo è per tutta la vita. Sicuramente è un percorso lungo, però a un certo punto spero di raggiungere quel benessere che mi consentirà di non dover fare tutte le settimane il punto della situazione. Adesso sono in una fase in cui sto un po’ riflettendo su quanto e come andare avanti, al momento sono ritornata in una fase discorsiva classica, per me è una continua evoluzione.
Traggo beneficio anche dai gruppi di auto mutuo aiuto, oppure dall’arte-terapia. Attività promosse da varie associazioni con cui mi sono confrontata. Secondo me lo psicologo è lo strumento principale ma non è l’unico e non basta, ognuno deve trovare i suoi modi e i suoi strumenti. Io per un periodo ho fatto kung fu, poiché avevo bisogno di sentirmi più forte. Consiglio l’arte terapia a una persona creativa a cui piace il disegno. Ce ne sono di diversi tipi: c’è anche quella individuale con uno psicologo che ti segue e ti fa esprimere con disegni e installazioni, ovvero strutture con materiali che poi vengono smontate e durano il momento dell’espressione. In ogni caso la terapia psicologica è lo strumento principale per affrontare questi traumi.
Intervista a cura di Aurora Gigli, Natalie Moncada, Irene Soglio, Gaia Goldonetto, Marika Tufano, Federica Cavallo Sabic. Contributo redazionale di Camilla Calatroni. Foto originali di Emanuele Massimo Di Pace, Marco De Martino