STORIE DI RESISTENZA NEL PIACENTINO
Augurando a tutti buon 25 aprile, vi proponiamo questo articolo con cui Lorenzo Roncaglia ci fa conoscere le storie di alcuni dei partigiani che, dalla provincia di Piacenza, zona di origine di suo nonno, lottarono per la nostra Liberazione! Buona lettura…
Questo articolo è frutto di testimonianze raccolte da mio nonno, Spartaco Roncaglia, classe 1942, e a me tramandate dalle sue parole. Sin da bambino Spartaco, cresciuto in piccolo paese dell’Emilia Romagna sulle rive del fiume Po (San Nazzaro d’Ongina), è vissuto in un’ambiente antifascista, caratterizzato dai racconti partigiani del cugino Antonio Rossi, dell’amico Giorgio Cigala, ex internato nei campi di concentramento e sterminio di nazisti, e di altre figure della resistenza locale.
Partendo dall’8 settembre 1943, data in cui il padre di Spartaco, Giacomo, riesce a sfuggire da un rastrellamento nazista, fino ai primi giorni di aprile 1945, nel corso del seguente testo verranno raccontate alcune testimonianze di vita partigiana nel Piacentino.
L’OCCUPAZIONE NAZIFASCISTA E I PRIMI RASTRELLAMENTI
Giacomo Roncaglia, classe 1908, dopo essere stato sul fronte francese, tra il 1941 ed il 1942 viene trasferito a Torino dove opera nei servizi ausiliari. Più tardi fa richiesta di trasferimento a Piacenza dove presta servizio in prefettura. Non sarebbe più stato mandato oltre frontiera, in quanto già quasi trentacinquenne.
Inizialmente si sposta dal posto di lavoro in prefettura al paese di residenza in divisa, fin quando non gli fanno osservazione; se non avesse immediatamente smesso sarebbe stato passibile di pesanti sanzioni economiche, e talvolta, anche se in casi più importanti, di arresto o di punizioni fisiche.
Fortunatamente, poco distante dalla prefettura di Piacenza abitano due sue cugine chiamate Del Fitto. Nel cortile dove queste vivono, tutti i giorni Giacomo Roncaglia lascia la bicicletta e gli abiti da borghese, si mette in divisa e si dirige sul posto di lavoro.
La mattina dell’otto settembre 1943 davanti alla prefettura manca il piantone. Le connessioni telefoniche sono interrotte ed in un ufficio alzando la cornetta Giacomo riceve come risposta: “Viva l’Italia! Viva la libertà”.
Poco dopo, scrutando negli uffici non trova nessuno, se non un capitano che si sta cambiando in borghese. Giacomo allora chiede cosa stia succedendo, ma gli viene risposto di non preoccuparsi. Stranito prende la bicicletta e si dirige dalle cugine. Poco prima di entrare nel loro cortile si accorge che nel cancello della prefettura stanno entrando due motocarrozzette ed un autoblindo tedesco. Prima di tornare a casa, Giacomo rimane dalle cugine un paio di giorni per paura di possibili rastrellamenti.
“A Piacenza ai tedeschi gliene sono scappati molti [di soldati italiani rastrellati nelle caserme n.d.r.], se uscivi dalla fila ti sparavano ma sai, la strada gira, uno trova un portone e ci si infila. C’era anche uno del mio paese che si era salvato, gli altri li hanno portati in Germania”: frammento di un racconto sull’occupazione di Piacenza di Spartaco Roncaglia.
L’otto settembre del 1943 si trova invece a Milano Antonio Rossi, nato a Castelvetro Piacentino il 12 giugno 1923, arruolato come bersagliere motociclista. Appresa la notizia dell’armistizio tra Italia e forze alleate, torna a casa a piedi.
Antonio Rossi diventerà cugino di mio nonno sposando nel 1950 Bianca Ragazzi, figlia di Rachele, sorella maggiore del padre di mio nonno. Una mia prozia, insomma.
I FRATELLI ROSSI E LE PRIME AZIONI PARTIGIANE
Nel gennaio del 1944 i partigiani emiliani, visti gli incessanti rastrellamenti, sono costretti a salire in montagna. Fino a quel momento, infatti, riuscivano a nascondersi in casa spostandosi nella notte; dormendo addirittura sotto la riva del fiume Po.
Durante l’inverno 1943-1944 Antonio si nasconde insieme al fratello maggiore Giovanni Rossi, che è malato, nella cascina di cui era affittuaria la sua famiglia.
La notte per sottrarsi ai rastrellamenti nazifascisti i due fratelli si rifugiano in un anfratto ricavato in campagna, che il padre aveva scavato sotto la tettoia dov’erano accatastate le balle di fieno; la mattina, spostate due o tre di queste ed aperta la botola, i ragazzi tornavano in casa.
Antonio e Giovanni vengono però catturati dai tedeschi e da militi della Repubblica Sociale Italiana, sicuramente per una soffiata, durante un rastrellamento. I fratelli Rossi vengono caricati su dei camion insieme ad altri 30 renitenti alla leva e ad alcune donne.
A dieci chilometri da casa, a causa della fitta nebbia notturna, il camion esce di strada e le ruote entrano in fosso. I prigionieri vengono fatti scendere e costretti a spingere il camioncino, allora Antonio prende per mano il fratello e fuggono nei campi di stoppie di granoturco: i tedeschi gli sparano contro ma non li colpiscono. A venti o trenta metri di distanza i fratelli si gettano a terra. I due vagheranno per i campi per due o tre giorni. Delle 30 persone che erano con loro sul camion con loro, alla fine della guerra solo in tre fanno ritorno.
Antonio ha sempre avuto un’idea su chi potesse essere stato il delatore; un suo secondo cugino arrivato da poco nel cortile che aveva visto il padre dei fratelli Rossi scavare la buca nel fienile.
Tornati a casa, Antonio (il cui nome di battaglia è “PALLA”) imbraccia le armi, una pistola della guerra del 15′-18′ e un vecchio fucile da caccia del padre e sale in montagna: combatte sull’appennino piacentino arruolato nella 62^ Brigata Luigi Evangelista – Distaccamento TAVANI.
“Lui, quel mio cugino lì [Antonio Rossi] con le armi era in gamba, eh, a parte che aveva fatto il bersagliere […] poi aveva un coraggio della Madonna”: Spartaco Roncaglia sulla figura di Antonio Rossi.
Giovanni “CARLETTO” entrerà a far parte della resistenza armata il 18 marzo 1945 nella stessa brigata e nello stesso distaccamento del fratello: fino ad allora, anche se non si hanno notizie, precise probabilmente Giovanni Rossi era vissuto in latitanza. Dopo l’arruolamento di Antonio, i fascisti prendono i suoi genitori e li trasportano a Parma per avere informazioni su dove si trova il figlio. Dopo essere stati rilasciati, tornano a casa a piedi.
Nell’inverno, il gruppo di Antonio cerca di assaltare i nazifascisti sulla Via Emilia un paio di volte, ma è quasi impossibile. Con i compagni di Brigata ogni tanto scende sulla Via Emilia, dove passa un autoblindo con un paio di camion di tedeschi, i partigiani sparano svariati colpi, ma poi sono costretti a ritirarsi.
Un gruppo di tre o quattro ragazzi del paese vicino a San Nazzaro tornando in montagna da casa poco prima dell’alba con un Guzzi 50 viene fermato e trucidato dai nazisti. Infatti, il ragazzo piazzato di sentinella con il fucile mitragliatore sul cassone si era addormentato, non accorgendosi di conseguenza del nemico. Un errore che costa al gruppo la vita: i ragazzi vengono fermati dai tedeschi e fucilati sul posto. Molti ragazzi erano inesperti ed era difficile convincerli a fare da sentinelle, addirittura a quelli dei primi sei mesi del 1926 non verranno affidate delle armi in quanto non avevano ricevuto un addestramento militare .
“C’era un mio cugino, che è morto da un po’, che era del 25′ o del 26′ questo, era stato richiamato dalla Repubblica di Salò, lui non è andato, è andato in montagna, ma le armi non gliele hanno mica date a quei ragazzi lì, perché non sapevano neanche usarle, li hanno tenuti lì un mese”.
ALTRI PROTAGONISTI DELLA LOTTA DI LIBERAZIONE E L’ULTIMA BATTAGLIA PRIMA DELLA VITTORIA
Dario Roncaglia (il cui nome di battaglia è “AURORA”) è nato a San Nazzaro il 2 aprile 1919 da Vincenza Roncaglia. Arruolato nella 62^ Brigata Luigi Evangelista dal 12 ottobre 1944, durante la lotta partigiana, in un periodo non identificabile, viene nascosto perché malato o ferito per 6 o 7 giorni in casa dei coniugi Giacomo Roncaglia e Bruna Semi, suoi cugini. Inoltre la coppia, anche in questo caso in un periodo di tempo non identificabile, deve ospitare in casa loro per una notte un soldato ucraino arruolato nelle file dell’esercito tedesco.
Antonio Carini “ORSI” nel 1936 combatte nella Guerra civile spagnola, successivamente è mandato al confino. Tornato in Italia, in seguito all’armistizio del settembre 1943 è uno degli organizzatori della resistenza nel suo territorio. Il 6 marzo 1944 viene fermato dai fascisti che lo trovano con una borsa di documenti. Antonio viene trasportato alla Rocca delle Caminate (Meldola) dove è sottoposto a torture: lui non parla, anzi, incita gli altri partigiani prigionieri a resistere. Più tardi viene legato a un’auto e condotto al Ponte dei Veneziani dove prima viene pugnalato a morte dai fascisti e poi lasciato sulla sponda del fiume sottostante.
Giacomo Roncaglia, il mio bisnonno, aveva combattuto sul fronte francese nella compagnia mortai da 81 insieme ad Antonio Carini e al fratello Romolo. Un giorno scoppia una lite tra Romolo e un tenente. Antonio, preoccupato, chiama Giacomo. Arrivati alla postazione, i due, trovano Romolo che continua a rifiutarsi di caricare una cassa di armamenti su un mulo ritenendosi non capace di farlo. Infastidito dalle continue pretese del tenente, a un certo punto Romolo prende la cassa e la butta contro un muro. Inutile dire che gli armamenti al suo interno, particolarmente esplosivi, tra i quali piccole bombe, iniziarono a deflagrare.
“Del mio paese, per esempio, che erano stati nei campi di concentramento c’è n’erano sette o otto, o anche di più. C’è n’era uno, un certo Cigala (Giorgio) che suo padre aveva un negozio che vendeva salumi, questo qua era stato proprio a Mauthausen; che era un campo di sterminio”: Spartaco Roncaglia sull’amico Giorgio Cigala, reduce dai campi di Mauthausen e Gusen II.
“Celso” Carini (mio nonno purtroppo non ricorda se questo fosse il vero nome o solo un soprannome), fratello di Antonio e Romolo Carini, viene catturato sul fronte Greco. Era un uomo alto un metro e novanta e al momento della cattura il suo peso è più di 100 chili. Quando torna dalla prigionia, dopo tre mesi di ospedale, ne pesa 65.
Antonino Zaggi nasce il 17 gennaio 1920, è affetto da paralisi infantile e zoppo da una gamba. Nonostante questo è un fulmine di agilità. Di giorno, nel periodo della lotta di liberazione, Antonino spostandosi in bicicletta porta in montagna sacchi con le armi.
Un giorno, durante la fuga da un gruppo di fascisti che lo cerca, Antonino si addentra in un bosco di Pioppi, dove nonostante lui continui a girare sempre intorno alla stessa pianta, i repubblichini non riescono a trovarlo.
Antonino viene catturato durante il rastrellamento del 15 gennaio 1945: è prima detenuto a Lugagnano e successivamente a Parma. Più tardi viene instradato verso il lager di Bolzano. Mentre è sulla tradotta di deportazione, Antonino riesce però a spostare delle assi dal pavimento del vagone in movimento e a fuggire.
Il 5 aprile 1945 i fascisti sono acquartierati nelle scuole di Lugagnano d’Arda quando hanno uno scontro armato con i partigiani locali. Ad un certo punto i fascisti smettono di sparare. Il partigiano Armando Chiappa a quel punto incita il suo gruppo a procedere con l’attacco corpo a corpo in quanto, secondo lui, i fascisti hanno finito le munizioni. In quel momento Antonio Rossi che sta caricando il suo fucile mitragliatore Brent, chiede a Chiappa di attendere così che, se un nemico fosse uscito allo scoperto, avrebbe potuto mitragliarlo. Ma Armando non vuole saperne e si allontana dal gruppo. Poco dopo un fascista armato di moschetto esce dall’edificio: quando Chiappa se ne accorge, però, è troppo tardi: il colpo era già stato sparato. Armando fa per voltarsi ma il proiettile lo colpisce alla schiena. Antonio Rossi ricorda come il proiettile trapassò il corpo del compagno.
Lorenzo Roncaglia