IL CAVALIERE BIZZARRO, un racconto di Nicolò Meloni
Un cavaliere di belle speranze ed enorme appetito va all’avventura, cercando di conquistare la sua dama. Un racconto picaresco che mescola cavalleria, avventura, magia, comicità e… buona tavola. Una ricetta a dir poco bizzarra!
C’era una volta, in una terra strana e lontana, un ragazzo dai folti capelli ricci e rossi che un giorno pronunciò queste parole: “Io quando crescerò sarò un grande cavaliere!” O almeno questo è quello che da quel momento continuava a ripetere, pur stando sempre a casa a poltrire sul suo letto in attesa di qualche grande novità.
Così lo apostrofava la gente: l’uomo sedia, l’uomo dai mille sogni digerenti, l’uomo dei grandi sonnellini… Già, la sua vita non era molto attiva, al contrario di quella di suo padre che invece era un prode cavaliere sempre in giro a vivere mille avventure.
“Se solo potessi essere come mio padre!”
Così si ripeteva mentre ciancicava rumorosamente una torta paesana dell’epoca fatta da sua madre: “Allora va’ ed esci, caro mio, vai a vivere queste tue grandi avventure, se no chi lo sente tuo padre, io non ho mica voglia!”
“Ma madre, ti pare possibile vivere grandi avventure senza un prode destriero?” e lei di solito lo abbandonava sbuffando e battendo i piedi per terra. “Stolta donna, lei non sa che se si risvegliasse la mia incredibile prodezza e la mia incredibile cavalleria, sormontata da un mare di coraggio, nessuno mi considererebbe l’uomo dai grandi sonnellini, ma l’uomo dalla grande forza!”
Finito il suo monologo, il ragazzo scoppiava sempre in una grassa risata e ricominciava a mangiare cosciotti di pollo ben arrostiti. A quel punto non erano più i suoi sogni a crescere, bensì la sua pancia.
Proprio quando ebbe finito il suo discorso nella stanza entrò suo padre, un uomo alto, con grandi spalle, sguardo intelligente e baffi lucenti pettinati con cura. L’uomo si avvicinò a lui e con un tono lirico iniziò il suo discorso: “Figlio mio tu sei matto, poltrire sul divano tutto il giorno non era il nostro patto! Ma ora sono stanco, per tutto il villaggio sei ormai una spina nel fianco! Oggi però il tuo cambiamento ha inizio, e se non lo farà finirai in un ospizio. Lo scopo del mio viaggio era più che chiaro: non voglio farti fare il formaggiaro, ma i tuoi sogni voglio trasformare in verità reale!”
Lo sguardo del figlio era iniettato di paura, ma la sua intelligenza gli fece rispondere in modo altrettanto rimato e regale con un semplice ma eloquente: “Che-che cosa!?”
L’uomo baffuto continuò: “Il tuo viaggio ha inizio e terminerà al solstizio, ti ci porto io in un’avventura con il mio destriero che di niente ha paura!”
Finito il suo canto, il padre lo afferrò con il braccio e lo scaraventò con una piroetta vicino al guardaroba, poi lo riprese al balzo con un caschè, lo fece girare di nuovo inserendogli, passo di danza per passo di danza, una parte di abito e armatura, riprendendo nel frattempo a cantare: “Anche se sei grassottello dalla regina vai al castello e se ti presenti bello ti apriranno al portello! Se non farai nessun danno, vesti lucente così sarai sorprendente, e un dono ti daranno! Ora vai figlio e conquista della corte il grande consiglio!” Finito il suo canto armonioso e cavalleresco, fece fare un’ultima piroetta a suo figlio, concludendo la danza con un bel calcione nel sedere che lo accompagnò fuori di casa.
Un po’ ammaccato, il ragazzone si alzò massaggiandosi il sedere e come prima cosa pensò: “Oh no, mi ha appena cacciato di casa senza neanche un soldo e un posto dove dormire, ma la cosa peggiore è: dove farò la cena?”
Assorto da questi pensieri profondi, il nostro ometto non si accorse dell’imminente impatto con una carrozza che passava di lì. La botta fu grande, ma nulla che la massa del futuro cavaliere non potesse assorbire, anche se si ritrovò con il sedere all’aria e la faccia nel fango. Dopo qualche gorgoglio nella melma, il nostro protagonista decise di alzare il viso da terra e, anche se la sua vista era un po’ appannata, più dal fango che da altro, notò subito un baldo giovane che lo fissava. Era un ragazzo alto e biondo con un’armatura smagliante come il suo sorriso, aveva una capigliatura fluente e bionda tipica da nordico e si portava, sempre pulito e tenuto con cura, un grande spadone sulla schiena che lo faceva camminare con fatica per il peso.
In posa fiera alzò un braccio indicando il cielo con il dito e domandò al nostro panciuto cavaliere: “Mi perdoni, messere, ma potrei sapere se quello stallone dal manto incredibilmente tenuto bene che la sta annusando è suo?”
Alzandosi faticosamente dalla posizione in cui si trovava, il nostro ragazzone si girò e pulendosi la faccia osservò bene ciò che gli si parava davanti. Era un cavallo in forma, muscoloso, con un manto fluente e nerastro e sorpreso esclamò: “C-certo che mi appartiene, è il prestigioso cavallo di mio padre della reggia dei Bartolozzi, come poteva non fornirmi un cavallo degno del mio nome!”
Finito di parlare iniziò a sogghignare tra sé e sé trascurando la presenza del cavaliere alle sue spalle.
“Beh, se proprio le appartiene sono disposto a proporre uno scambio con il mio destriero che sfortunatamente non riesce a reggere il peso della mia performante armatura”
Il nostro protagonista lanciò uno sguardo schifato al piccolo cavallo che il biondo si portava dietro; era malconcio, con le gambe storte e circondato da mosche. La risposta scontata del panciuto cavaliere fu no, ma ci ripensò due volte quando il gentile e non stupido biondo cavaliere tirò fuori dei sacchetti pieni di monete: “Mi perdoni, non avevo mica notato che avesse tutto quel peso addosso, l’alleggerisco subito!”
Afferrò i sacchetti e con un sorriso stampato per la presunta ricchezza in arrivo, diede una pacca al biondo porgendo e indicando il favoloso stallone del padre; balzò in sella al povero cavallino che si ritrovava e con un saluto sbracciato diceva addio al baldo giovane che sfrecciava verso le campagne con il cavallo appena scambiato.
Tutto felice, il nostro cavaliere partiva a passo regolare verso il centro città e, tra lamentele del cavallo e il cinguettare di uccelli, contava i grossi soldoni che aveva ottenuto. Appena finito di contare il suo guadagno, arrivò in centro città e puntò lo sguardo in cerca di qualche ostello dove lavarsi e mangiare qualcosa, visto l’arrivo imminente della sera. Legò il cavallo a un abbeveratoio e tutto contento entrò nella locanda di Magò, che essenzialmente era una trattoria specializzata in cibo grasso e oleoso, il preferito dal nostro ometto. Entrò con camminata fiera e spavalda e, massaggiandosi i vari menti che si ritrovava, lanciava sguardi di qua e di là notando i gentiluomini dell’epoca che lo osservavano bisbigliando vari pettegolezzi. Arrivò al bancone della locanda e con i suoi modi gentili chiese alla signora che serviva: “Donna, io, Guglielmo Bartolozzi, esigo da lei il più grande calice che dispone riempito fino a strabordare di vino della migliore qualità del posto, il Polvere di Ipocrasso!”
Ascoltato l’ordine, la donna che serviva si girò verso la sua direzione, gli porse un calice di enormi dimensioni riempito fino a strabordare di vino di ottima qualità e si chinò a raccogliere le monete che il cavaliere le gettava per poi baciare i piedi del generoso avventore.
O almeno questo era quello che il cavaliere s’immaginava che sarebbe successo.La vicenda invece andò in tutt’altro modo. Infatti il nostro protagonista entrò e inciampò cadendo di faccia scatenando le risate di tutta la locanda, ma anche la furia della cameriera, la cui gonna fu causa dello scivolamento e caduta di Guglielmo, che venne dal vino che la donna gli rovesciò sul testone, causando altre risate. Sicuramente poco fiero della figura fatta, si lanciò in una corsa scomposta verso l’uscita. Sfortunatamente urtò un signore che passava di lì. Questi, avendo avuto una cattiva giornata, scatenò la sua frustrazione sul goffo corridore di turno, gonfiandolo come una zampogna. Tutto ammaccato fu accompagnato a calcioni fuori dalla locanda, dove a fatica salì sul suo cavallo e riprese il cammino verso la reggia, l’unica cosa che riusciva a ricordarsi del discorso del padre dopo tutte le botte in testa che aveva preso.
Continuando ad assicurarsi di non aver contratto alcun tipo di frattura o demenza, arrivò alle porte della città. Si trovava davanti un grande portone formato da sbarre di ferro apribile solo da una leva lì accanto all’interno di una cabina. Si avvicinò a essa e cercò di aprire la cabina, ma proprio in quell’istante dal suo interno sbucò fuori un omuncolo esclamando con voce tetra e inquietante: “Buonasera!”
Il cavaliere panciuto cadde all’indietro per lo spavento e una volta rialzatosi vide l’omuncolo che continuava a parlare: “Mi sembra che le serva una m-mano, di cosa ha b-bisogno?”
Il cavaliere più lo guardava più ne rimaneva spaventato: infatti si trovava davanti un uomo di piccola statura, gobbo, balbettante e vestito di stracci. Il suo aspetto non era proprio dei migliori: aveva un grande taglio in viso che lo aveva reso cieco da un occhio e che proseguiva sul naso e sul labbro superiore e il suo sorriso era costellato da denti marci e mancanti e da una lingua a punta che gli sporgeva dalla bocca.
Ma evitando di concentrarsi sul suo aspetto. il giovane provò a rispondere: “Sì, mi servirebbe attraversare il cancello della città per proseguire nel mio altezzoso e nobile viaggio alla reggia del sir Culotti e rendere fiero mio padre sposando la sua magnifica figlia”
La risposta dell’omuncolo fu: “Ah c-capisco, ma sa, di n-notte il bosco è p-parecchio p-pericoloso, si trovano p-parecchie c-creature orripilanti e letali che p-potrebbero r-recarle p-problemi”. Finito di parlare iniziò a sogghignare e a grattarsi la grande testa spelacchiata.
Guglielmo, non potendone più, esclamò: “Penso che dopo averla vista non credo che ci possa essere altro che possa spaventarmi là fuori, quindi le chiedo di aprire subito il portone!”
L’omuncolo scoppiò in una inquietante risata e azionò la leva che alzò la porta in modo lento e scricchiolante, consentendo a Guglielmo di scattare via con il suo cavallo. Guglielmo corse e corse, o almeno è quello che fece il cavallo, visto che lui era sulla sua groppa svenuto dalla paura causata dagli ululati dei lupi nella boscaglia.
Quando l’animale arrivò a uno stagno, il giovane riprese i sensi ed è proprio lì che trovò una casa che sembrava abbandonata. Prese coraggio e toccò con cautela la porta, ma poi si girò verso il suo cavallo dicendo: “No, non credo che sia il caso di fermarsi qui, dopo tutto solo un vile marrano potrebbe pensare di rinfrescarsi e riposare qui…”
E in quell’esatto momento la porta si aprì e si sentì una voce: “Prego, vile marrano, entri pure, vi è posto per dimorare!”
Il cavaliere si girò con il volto sbiancato, la bocca spalancata, gli occhi all’indietro e le mani al volto in segno di evidente e puro coraggio e dal buio della casa uscì un braccio che lo afferrò per il naso e lo trascinò all’interno. La porta si chiuse da sola, le candele si accesero da sole e il volto del rapitore si rivelò. Era una vecchia signora con capelli grigiastri che le arrivavano alle spalle, un grande nasone patatone, occhi grandi e verdi che si afferrò la gonna a destra e a sinistra e, chinandosi, si presentò: “Piacere di conoscerla, si trova al cospetto della grande e inimitabile Maga Magò che è anche la proprietaria di una locanda in una grande città, ma questi sono dettagli”
Il coraggioso Guglielmo riprese il senno e annuì con la testa dicendo: “Sì, ci sono appena stato e non è che abbia passato una delle mie migliori avventure”
Magò sorrise e disse: “E come ti sei trovato?”
“Beh, posso dirle che è veramente un bel posto, però non sono riuscito a gustarmelo”
Ascoltato ciò, la maga cambiò forma e divenne una serpe che si avvolse su Guglielmo, arrivò al suo orecchio e sussurrò: “Il problema, sa dirmi qual è stato?”
Poi cambiò forma di nuovo diventando una gallina iniziando a saltellare di qua e di la: “È stata qualche oca a importunarla?”
Poi ancora una metamorfosi, diventando una volpe: “Oppure qualche furbo e vile marrano la ha truffata?”
Infine si trasformò in un rinoceronte: “O forse ha incontrato qualche pezzo grosso che gliele ha suonate di santa ragione?”
Guglielmo, pensandoci un attimo, anche se era difficile per una mente come la sua, soprattutto in quel momento e a pancia vuota, si accorse che in effetti si poteva dire che erano successe tutte e tre queste cose: prima lo scambio del prode destriero, poi il vino in testa dalla signora, e infine le botte prese dal potente signore con cui si era scontrato. La domanda sorse spontanea: “Ma come fa a sapere tutte queste cose?!?!”
La maga scoppiò in una risata: “Io conosco e vedo tutto, ed è stato uno spasso osservare le tue disavventure! Ma credo che a tutti serva una mano e poi voglio vedere che altre grande figure farai”
Il panciuto cavaliere iniziò a indietreggiare, poi si girò e vide una scopa appoggiata a un muro ed esclamò: “E lo farà prestandomi qualcosa di magico come questa scopa volante?”
Magò lo guardò un po’ stranita ma lo lasciò fare. Infatti Guglielmo si mise la scopa tra le gambe e si lanciò dalla prima finestra che vide, cadendo clamorosamente di faccia nella palude lì vicino. Rialzandosi disse: “Ma sei una strega, come fai a non avere una scopa volante?!”
Magò, furiosa, rispose: “Sono una maga, non una strega! Però se è proprio questo che desideri, renderò quella scopa magica”
Detto ciò portò le mani al cielo che si illuminarono e, dopo aver pronunziato qualche incantesimo che Guglielmo era intento a ignorare completamente, visto che era attratto come un bimbo dalle lucciole della palude, scagliò la sua magia su quella scopa che prese a vibrare in aria scoppiettando. Infine, dall’impugnatura uscì una faccia e la scopa iniziò a volare qua e là atterrando davanti alla maga.
“Buonasera, mia signora, se avessi le mani e le gambe mi inchinerei, ma tralasciando questo piccolo dettaglio, come posso esserle di aiuto?”
“Semplicemente, accompagna quel babbeo alla reggia del sir Culotti.”
“Ma ne è proprio sicura? Non teme per la mia fragilità? Se quell’essere mi si posasse sopra, credo che mi spezzerei proprio come un ramoscello!”
“Ma è quello che sei, quindi taci e segui tutti i suoi ordini!”
“Essendo costretto, accontenterò ogni suo desiderio.”
La scopa prese a volare di nuovo e atterrò davanti a Guglielmo e, rassegnandosi all’idea di dover sopportare una tale peso, disse: “Prego salga pure su di me”
Il cavaliere panciuto si voltò verso la scopa tenendo un dito nel naso: visto che si era trovato a suo agio nella palude, si era rilassato… Tolto il dito e guardandolo ripetutamente disse: “Strabiliante, ma con il mio prode destriero come facciamo?”
La scopa si girò guardando la maga interdetta e magò sbuffando rispose: “Non vi è problema, lo farò diventare semplicemente più piccolo, piccolo come un topolino”
A quel punto alzò di nuovo le mani al cielo e ripetendo un altro incantesimo colpì il cavallo malconcio che diventò piccolo piccolo. Fatto ciò porse il cavallino, “-ino” in tutto e per tutto, al cavaliere. Diede una pacca sulla spalla di Guglielmo prima di vederlo sfrecciare nei cieli a una velocità incredibile. Volava tanto veloce che tutto il grasso in eccesso sul suo viso ballonzolava all’indietro scoprendo le sue gengive e portava i suoi occhi verso l’esterno asportando quasi le palpebre, mentre la scopa tranquilla continuava il suo viaggio alla velocità della luce verso la reggia .
La mattina seguente, all’alba, la scopa roteando atterrò davanti ai cancelli del grande castello. Guglielmo scese dalla scopa saltellando come un ubriaco . Subito dopo l’atterraggio, comparve con un guizzo luminoso Magò davanti a loro e la scopa subito spaventata disse: “Mi scusi signora, ho portato a termine il mio compito… che ho fatto di sbagliato, non mi faccia del male, la prego!”
La maga la scansò con una spinta: “Non mi interessa di te, stupido ramoscello egocentrico, piuttosto tu, vieni qui!”
Indicò Guglielmo e subito dopo lo afferrò per il polso estraendo dalla sua armatura il piccolo cavallino, poi posò l’animale in terra e, scandendo la formula di un altro incantesimo, lo riportò alle sue dimensioni iniziali. Subito dopo schiaffeggiò il cavaliere panciuto che era ancora stordito: “Senti, tu, ti consegno questa, vedi di usarla bene!”
La maga aprì la mano sinistra e fece apparire sopra di essa una piccola fialetta con all’interno un liquido rosa. La mise in mano al cavaliere spiegandogli come avrebbe dovuto usarla: “Siccome la figlia del sir non si innamorerà mai di un babbeo come te, mi è sembrato il caso di darti un altro aiuto. Devi semplicemente versare dentro a una bevanda il contenuto di questa fialetta e farla bere alla diretta interessata. La prima persona che vedrà dopo averla bevuta diventerà il suo sogno amoroso più grande e non si staccherà mai più da lui”
Il cavaliere panciuto guardò la maga e annuì, anche se non aveva capito bene ciò che gli aveva detto. Magò si staccò da lui e, con una risata maligna, afferrò la scopa e, strozzandola quasi, scomparve in un altro guizzo di luce.
Guglielmo guardò la fialetta e urlò: “Eureka! Non mi ricordo niente di quello che mi ha detto Magò!” Poi ci pensò su e disse: “Ho trovato, so cosa fare!” e scoppiò in una risata maligna che venne soffocata da grossi colpi di tosse, visto tutti i moscerini che gli erano entrati in gola durante il viaggio. Saltò in groppa sul suo cavallo e si avviò all’entrata del castello, dove incontrò due grosse guardie armate di lancia che lo guardavano con sguardo acidulo.
“Si presenti sommo, o meglio, tonto cavaliere!”
“Vi trovate al cospetto del grande cavaliere Guglielmo Bartolozzi, della casata dei Bartolozzi, grandi sono state le mie avventure fino ad arrivare qui, come ad esempio…” ma fu subito interrotto.
“Sfornare crostate? Dormire su letti chiodati? Senta, la conosciamo bene, vogliamo dire, conosciamo bene suo padre che la ha descritta in modo perfetto e ci ha informato del suo arrivo”
“Ne sono lusingato, diciamo… e cosa farete in merito?”
Le due guardie a quel punto lo fecero entrare e gli cambiarono l’armatura con un’altra più pulita. Subito dopo gli chiesero: “Come le abbiamo già spiegato, sapevamo del suo arrivo, ma non sappiamo ancora il motivo della sua visita”
Guglielmo tirò indentro la pancia, portò il petto in fuori e, posandosi la mano destra chiusa a pugno sul petto, disse: “Mi sono recato qui in missione solenne per sposare la figlia del sir Culotti”
I due allora si guardarono e iniziarono a ridere: “Anche noi ci abbiamo provato, ma ci ha scaricati in pieno: non sappiamo come lei potrai mai conquistarla!”
Allora il cavaliere panciuto estrasse la fialetta e facendo un occhiolino disse: “Diciamo che ho un buon piano…”
Mentre le due guardie lo guardavano storto, Guglielmo prese a correre, inciampando ogni tanto, verso l’entrata. Spalancò le grandi porte principali, salì le scale a chiocciola, o almeno le prime che trovò pensando che più si salisse prima sarebbe arrivato alla meta, entrò in una stanza piena di sarte saltando su ogni telaio per fare prima, si diresse poi in un lungo corridoio pieno di stanze tenute con cura per gli invitati e le mise tutte, infine raggiunse un grande salone dove vi era una lunga tavolata addobbata per la colazione che nessuno aveva ancora sfiorato.
Immaginerete già cosa avrebbe fatto… esatto! Riprese fiato e mangiò e bevve il più possibile, poi fece per uscire ma si trovò davanti le due guardie di prima che lo fermarono braccandolo come un bimbo in fuga alle sculacciate della matrigna: “Senta un po’, siamo ormai al quarto piano, ma al momento i padroni di casa si trovano nella sala reale che al piano terra”
Guglielmo prese fiato e dopo aver sparato un grande rutto sulle facce delle guardie disse ancora ansimando dalla fatica: “Sì, ma come avete fatto a raggiungermi così in fretta? Voglio dire, non vi ho visto neanche seguirmi”
La loro risposta fu abbastanza scontata: “Beh, non per offenderla, ma non è che lei sia un asso nella corsa e nel non lasciare tracce del suo passaggio su tutti i piani del castello.”
Il cavaliere panciuto sorrise facendo vedere tutti i suoi bei dentoni sporchi ancora della colazione scroccata, poi le due guardie lo scortarono fino all’entrata della sala reale e, dopo averlo pulito un po’, gli fecero coraggio e lo spinsero dentro. Le grandi porte colorate si aprirono rivelando un grande stanza adornata con lampadari sfavillanti e grandi finestroni, tavolate piene di premi e onorificenze, in fondo ad essa, tre troni: quello a sinistra per la regina, quello a destra per il re e quello centrale per la figlia.
Tutti e tre si stavano preparando per andare a colazione esaminando prima qualche giullare di corte: arrivò il primo che iniziò a fare giochi di prestigio con dei calici di vetro, quando però gliene cadde uno che si ruppe e il re commentò: “Come tu hai rotto quel costoso calice, io romperò la tua non costosa vita. Avanti, torturatelo!” Due guardie uscirono da delle entrati laterali e sotto i lamenti del giullare lo portarono via.
Entrò il secondo che si mise a raccontare una barzelletta: “Um… ecco, ce l’ho:
un sarto bussa alla porta di un monastero, un monaco gli apre e lo fa entrare. Il sarto è pieno di entusiasmo e mostra all’arzillo fraticello la sua nuova, rivoluzionaria invenzione: le mutande. Il frate è un po’ perplesso: “Ma a che servono queste cose? ” “Ma come a che servono? Guardi, le provi, non vede che confort, le raccolgono tutto in un caldo abbraccio, basta con questi cosi penzoloni!” “Caspita, è vero! Mi porti quattro metri di stoffa, voglio mostrare quest’invenzione alle monache della santissima vergine” Così se ne va col carretto carico di stoffa verso la cima della collina, al monastero di queste suore. Durante il tragitto gli viene voglia di liberarsi da un certo peso. Scende dal carretto, si leva le mutande e si libera dal contenuto alquanto fetente, ma siccome non è abituato dimentica di rimettersele, e le lascia per terra. Arriva al monastero, bussa alla porta e gli apre la superiora. Lui euforico esclama: “Ho una cosa da farle vedere, guardi qua!”, e tutto impettito si alza il saio. La suora è sul punto di svenire: “Oh mio Dio!”, e lui, ancora più orgoglioso: “E questo è niente, sul carretto ne ho altri 4 metri!””
Finito di raccontarla, il giullare scoppiò in una risata. Chiese se era piaciuto, ma la regina rispose così: “La sua battuta non è comica ma soprattutto volgare, come può mia figlia ascoltare tali sfrontatezze? Avanti rendete più puro quest’uomo con un bel bagno caldo, portatelo al bagno di lava!” detto ciò due guardie uscirono da delle porte laterali e lo portarono via tra le sue lamentele.
Successivamente la figlia guardò il padre chiedendogli: “Chi è il prossimo?”
Il re guardando avanti vide il nostro valoroso cavaliere e indicandolo disse: “Beh, è quell’ometto laggiù il prossimo.”
Allora due guardie uscirono dalle porte laterali afferrandolo e lo portarono davanti ai reali. Guglielmo si trovava davanti a un re che di reale aveva ben poco se non i soldi e l’abito, visto che era un babbalucco salito al potere per eredità, era grassoccio, con due fossette rosa sulle guance, capelli neri lunghi e lisci tenuti in treccine e sormontati da una grossa corona. Indossava inoltre un grande e largo vestito rossastro. Poi guardò la regina e notò che era molto magra, quasi scheletrica e di scheletrico sembrava avere anche l’anima, visto che odiava tutti e tutto ciò che non fosse sua figlia. Aveva capelli molto lunghi e neri ed era vestita con una lunga tunica bianca abbinata al colore della pelle anch’esso bianco. Infine guardò la figlia e rimase colpito dalla sua bellezza: aveva un nasino piccolino e una boccuccia altrettanto piccola, i capelli simili alla madre e un vestitino che le stava a pennello di un color verde scuro.
Il re tossì guardando il giovane avventuriero e disse: “Su, avanti, faccia qualcosa!”
Guglielmo quindi si alzò e ridendo disse: “Certo che farò qualcosa, e vi stupirò”
Detto ciò si lanciò in un ballo frenetico che suscitò le risate della regina e del re, visto che ogni tanto gli cadevano le braghe o perché inciampava e cadeva contro le guardie, finché il suo ballo non finì con una scivolata finale sulle ginocchia ai piedi dei reali. Finito di ridere il re si asciugò le lacrime per il troppo spasso e disse: “Beh, io direi che ora puoi essere anche decapitato, ti ringrazio per il tuo balletto”
La regina proseguì dicendo: “Concordo, potrebbe finire per contagiarci con la sua stupidaggine”
Guglielmo a quel punto non perse tempo: prese e lanciò la fialetta aperta contro la principessa che avendo ancora la bocca spalancata per le risate ne inghiottì tutto il contenuto finendo poi per sputarla iniziando a tossire.
Il re a quel punto esclamò: “Tu sei un folle, hai firmato la tua condanna a morte! Avanti, guardie, portatelo via!”
Tutte le guardie uscirono dalle porte laterali e si misero intorno a lui scrutando ogni suo movimento, avanzando sempre più lentamente verso di lui per afferrarlo mentre Guglielmo recitava le sue ultime preghiere. La pozione però iniziava a fare effetto: un raggio di luce colpì il centro della stanza sbalzando le guardie in terra, e dal quel fascio di luce comparve Magò: “Tu, brutto babbeo, mi hai fatto scompisciare dalle risate, non posso credere quanto tu possa essere incompetente e stupido!”
Guglielmo perdeva muco e lacrime singhiozzando e disse in modo pietoso: “Pensavo di morire, Magò, grazie per esser venuta in mio soccorso”
Magò gli fece una pernacchia schizzandogli la sua saliva su tutta la faccia, poi alzò le mani al cielo e, sotto i volti di tutta la corte terrorizzata, scandì e lanciò una potente magia che portò la principessa ormai innamorata tra le braccia di Guglielmo (che prese a lamentarsi per il troppo peso da trasportare) e fece addormentare tutti gli altri, dal re e la regina alle sarte.
Poi si girò verso Guglielmo dicendo: “Su, vai cavalier marrano, ho già prestato il mio aiuto fin troppo, però ricordati di passare a trovarmi”, e con una risata maligna scomparve con un lampo lucente.
Guglielmo guardò la principessa che gli accarezzava il viso e disse subito: “Ci sarà tempo per le coccole, ma per ora torniamo a casa che sto morendo di fame e, sia chiaro, voglio i migliori manicaretti che tu possa fare!”
La principessa con la sua dolce voce disse: “Sarà fatto ,mio cavalier, ma mi consentirà di dormir sul suo soffice e morbido corpo la notte?”
Guglielmo arrossì e iniziando a camminare verso l’uscita gli rispose con un: “Vedremo”
Proseguì poi fino al grande portone da dove era entrato, trovando le due guardie aiutanti addormentate con un sorriso imbecille e una mano chiusa a pugno con il pollice in su, come in segno di congratulazione verso il cavaliere che aveva conquistato la sua dama. Successivamente arrivò ai grandi cancelli dove aveva lasciato il suo cavallo e iniziò il ritorno che fu meno pesante perché allietato dalle dolci carezze dalla principessa.
Una volta superato il bosco e la casa di Magò, che salutò insieme alla scopa che invece lo guardò male sputando per terra, arrivò al grande portone della sua città natale, dove il piccolo omuncolo lo salutò in modo inquietante leccandosi ripetutamente le labbra. Ma il cavaliere lo ignorò e proseguì il cammino a cavallo mentre le voci di tutta la città, che inizialmente lo insultavano, vedendo la principessa iniziarono a complimentarsi. Pure la locandiera prese e lanciò una bottiglia di vino in omaggio al cavaliere, che però era troppo assorto dalla situazione per vederla: la bottiglia gli finì in testa, ma siccome era una crapa vuota, rimbalzò senza rompersi e la principessa dietro di lui la prese al volo.
Infine, arrivarono a casa del cavaliere. Quella sera fu festa e tutti bevvero e mangiarono finalmente per il cavaliere panciuto. Tutti i suoi soprannomi vennero dimenticati e i concittadini iniziarono a riconoscerlo come un vero e proprio cavaliere, anche se non proprio nella norma. Lo nominarono e ancora lo ricordano come “Il Cavaliere Bizzarro”.
Nicolò Meloni