1997: FUGA DA NEW YORK Recensione di Nicolò Scalesi, vincitore del concorso Piccolo Grande Cinema
Con questa recensione di 1997: FUGA DA NEW YORK (USA, 1981, John Carpenter), Nicolò Scalesi della 4^B dell’Einstein ha vinto il concorso che gli permetterà di partecipare come giurato al festival “Piccolo grande cinema” organizzato dalla Fondazione Cineteca Italiana di Milano.
Un deserto d’acqua circonda la città di New York, oscura e fredda agli occhi di chi sta al di là delle mura spinate. Le Twin Towers, silenti, vigilano sull’isola di Manhattan e sulla distesa d’acqua illuminata dalla luna che la circonda. Incastonate in un’atmosfera buia e tetra, tengono ancora acceso il ricordo della città, non facendola soffocare dal manto dell’oscurità della notte.
La città è viva, respira e geme delle urla e dei versi delle bande per le strade, dei “pazzi” che escono dalle sotterranee, i teatri che danno ancora spettacolo. E Jena Plissken, che nel silenzio della notte si cala sulla città con il suo aliante, passando tra i palazzi ridotti a carcasse, atterra sul tetto di una delle torri del World Trade Center.
Il regista John Carpenter immagina e ci mostra una Manhattan ridotta solamente a un ricordo di se stessa, in un contesto di degrado estremo, post-apocalittico, quasi fantascientifico. Siamo dalle parti di un certo cinema statunitense anni ‘80: il degrado urbano e l’estrema criminalità di “The Warrios” di Walter Hill, i vicoli delle strade caratterizzati da un colore blu elettrico ripresi poi da James Cameron in “The Terminator”.
“1997: Fuga da New York” è uno dei capolavori degli anni ‘80, un cult sopravvissuto al tempo non solo grazie a una tecnica eccellente, ma anche per le implicazioni sociali e politiche presenti e al contempo mascherate, caratteristica di tutti i film di Carpenter, da “Distretto 13 – le brigate della morte” a “The Fog”.
I personaggi, le scene e i dialoghi chiave sono semplicemente memorabili: Jena Plissken è l’antieroe per eccellenza, spietato, cinico e autoritario ma di profonda consapevolezza, caratteristiche messe subito in chiaro nel surreale interrogatorio con Bob Hauk; il Presidente (“Presidente di che?”) è solo una figura di facciata, priva di potere e utilità, completamente distrutta a livello umano in una delle scene finali.
Il contesto newyorkese è scollegato dal tempo e dallo spazio per farsi universale: il bene e il male, se esistono, sono intrecciati e indistinguibili nel vortice degli eventi. I veri prigionieri sono la giustizia e l’equità sociale.
Nicolò Scalesi